8 dicembre 2025

Ci riuscirà l’Europa?

Tra crisi, protezionismi e giovani generazioni: l’Unione alla prova della “calibrazione”

di Giorgio Gasperoni

La domanda non è più se l’Europa “serva” o no. La domanda vera è un’altra, più esigente: l’Europa ce la farà a restare protagonista in un mondo che corre verso nuove forme di potenza, di conflitto e di protezionismo?

Crisi finanziarie, pandemia, guerra in Ucraina, competizione tra Stati Uniti e Cina, instabilità ai confini: tutto chiede al progetto europeo di uscire dalla zona di comfort. Parole come autonomia strategicasovranità europeasicurezza economica sono entrate nel linguaggio quotidiano delle istituzioni.

Eppure, accanto a questo risveglio, vediamo veti incrociati, governi che si mettono di traverso, ribellioni contro proposte come il “Buy European”. È qui che serve una parola meno ideologica e molto concreta: calibrazione.

Calibrare significa trovare un equilibrio tra poli che si respingono: a) apertura e protezione, b) livello europeo e interessi nazionali, c) velocità decisionale e consenso democratico.

La grande domanda è proprio questa: l’Europa sarà capace di calibrare, o resterà prigioniera delle proprie contraddizioni?

1. Il “trauma Trump” e il risveglio europeo

Uno dei momenti che hanno maggiormente “risvegliato” l’Europa non nasce in Europa, ma alla Casa Bianca. La stagione di Donald Trump – e il trumpismo che continua a influenzare la politica americana – ha demolito una vecchia illusione europea: l’idea di un ombrello statunitense eterno, automatico, sempre garantito.

Le frasi su una NATO “obsoleta”, il messaggio implicito “se non pagate abbastanza, arrangiatevi”, le ambiguità su Putin e sul senso dell’alleanza atlantica hanno costretto molte capitali europee a guardarsi allo specchio.

Parallelamente, la sequenza di crisi interne ha mostrato che l’Europa sa agire, ma quasi sempre sotto pressione:

·       crisi dell’euro → il “whatever it takes” della BCE;

·       pandemia → il debito comune di Next Generation EU;

·       invasione russa dell’Ucraina → sanzioni senza precedenti, sostegno a Kiev, avvio di un dibattito vero sulla difesa.

Ogni volta il copione è simile: per anni prudenza e litigi, poi, davanti al baratro, un salto in avanti. È una “pedagogia della crisi”: l’Europa non si muove con anticipo, ma quando si muove cambia davvero le regole del gioco.

Il problema è che oggi la pressione è continua: guerra, materie prime, transizione energetica, rivoluzione digitale. Non basta più reagire: occorre imparare a preparare le risposte.

2. “Buy European”: difesa dell’industria o protezionismo mascherato?

In questo contesto, la proposta di una preferenza europea negli appalti pubblici – il cosiddetto “Buy European” – è diventata un simbolo.

Da una parte c’è chi sostiene che, in un mondo in cui: a) gli Stati Uniti praticano apertamente il “Buy American”, b) la Cina protegge in modo massiccio i propri campioni nazionali,

l’Europa non può continuare a fare il “turista del multilateralismo”, il mercato aperto dove tutti vendono tutto. Secondo questa visione, se usiamo soldi pubblici per infrastrutture, energia, digitale, è legittimo chiedere che almeno una parte sostenga tecnologie e lavoro europei.

Dall’altra parte, una coalizione di Stati più piccoli e più liberali teme qualcosa di diverso: a) che il “Buy European” finisca, in pratica, per favorire soprattutto i grandi gruppi franco-tedeschi; b) che si alzino muri proprio quando le loro economie vivono di apertura; c) che si trasformi la concorrenza globale in concorrenza distorta interna all’Unione.

Per loro, dietro la bandiera europea rischia di nascondersi un protezionismo selettivo: benevolo con chi è già forte, meno attento ai nuovi attori e alle innovazioni.

Il rischio è duplice: 1. continuare a essere il “supermercato del mondo”, 2. oppure chiudersi in una fortezza inefficiente, che protegge aziende poco dinamiche solo perché hanno il passaporto giusto.

Qui la calibrazione è decisiva: non si tratta di dire “sì” o “no” al Buy European in astratto, ma di decidere dove, come, con quali criteri, per quanto tempo. Settori strategici, condizioni di innovazione, tutela del lavoro e dell’ambiente: una preferenza europea intelligente dovrebbe passare da qui, non solo dal luogo di sede legale.

3. Unanimità, veti e fiducia mancante

Dietro il conflitto su “Buy European” c’è un problema più profondo: il modo in cui l’Europa decide.

La regola dell’unanimità, pensata per tutelare le sovranità nazionali, si trasforma sempre più spesso in un meccanismo di ostaggio:

·       un “no” basta a bloccare sanzioni, fondi per l’Ucraina, riforme;

·       i veti diventano moneta di scambio per ottenere concessioni su tutt’altro;

·       le decisioni europee vengono usate dai governi come teatro di politica interna: a Bruxelles si negozia, a casa si scarica la colpa su “loro”.

Così, invece di uno spazio in cui si condividono responsabilità, l’Unione rischia di diventare il luogo dove ognuno cerca di scaricare responsabilità sugli altri.

Se l’Europa vuole davvero passare dalle discussioni ai fatti, dovrà sciogliere questo nodo: a) accettare che su alcune materie (difesa, industria, energia, politica estera chiave) non tutto può dipendere dall’unanimità; b) riconoscere che la democrazia europea vive sia nei Parlamenti nazionali sia nelle istituzioni comuni.

È un passaggio psicologico prima ancora che giuridico. Senza un minimo di fiducia reciproca, nessuna calibrazione regge.

4. Tre scenari per l’Europa

Guardando al quadro complessivo – guerra, rapporto con gli USA, concorrenza cinese, transizione green, rivoluzione digitale – possiamo immaginare almeno tre scenari.

Scenario minimo.

L’Europa fa qualche passo avanti: un po’ di preferenza europea, qualche fondo comune in più, un coordinamento maggiore sulla difesa. Ma tutto resta a metà. Siamo più protetti di ieri, ma ancora troppo lenti e divisi per essere un attore geopolitico a pieno titolo. Una autonomia strategica incompleta.

Scenario ambizioso.

L’Europa prende sul serio il linguaggio che usa. Accetta di:

·       mettere in comune parti significative di politica industriale e di difesa;

·       usare in modo mirato strumenti come il Buy European, concentrandoli sui settori davvero strategici;

·       limitare l’unanimità su alcune decisioni;

·       accompagnare queste scelte con un vero dibattito pubblico, spiegando il “perché” prima del “come”.

È lo scenario più costoso politicamente, ma l’unico che permette all’Unione di restare protagonista e non solo area di influenza di altri.

Scenario regressivo.

Prevalgono la paura e il calcolo di breve periodo. I veti si moltiplicano, le riforme si bloccano, ognuno si arrangia con mini-alleanze e accordi bilaterali. L’Europa continua a parlare di sovranità, ma nella pratica vive di dipendenze incrociate, più spettatrice che attore.

Nessuno dei tre scenari è scritto in modo definitivo. La direzione dipenderà anche dalle opinioni pubbliche, dai mondi educativi, dai movimenti per la pace e dai giovani.

Conclusione – Ci riuscirà l’Europa?

Possiamo dirlo con onestà: non c’è nessuna garanzia che l’Europa ce la farà.

Quello che c’è oggi è una possibilità reale, forse l’ultima a questa scala: usare le crisi non per chiudersi nella paura, ma per prendere sul serio la parola calibrazione.

Calibrare protezione e apertura. Calibrare sovranità nazionale e responsabilità comune. Calibrare velocità decisionale e spazi di democrazia.

Se ci riuscirà, l’Europa potrà restare non solo un mercato regolato, ma un laboratorio di pace, diritti e convivenza in un mondo frammentato. Se fallirà, altri decideranno al suo posto che tipo di ordine – o disordine – prevarrà.

Forse, allora, la domanda “Ci riuscirà l’Europa?” non va lasciata solo sulle scrivanie di Bruxelles. Va riportata nelle case, nelle scuole, nelle città, nelle piccole repubbliche arroccate sui monti e nelle grandi metropoli.

Perché, nel bene e nel male, l’Europa non è “loro”: siamo noi.

E la risposta dipenderà anche da quanto saremo disposti, ciascuno nel proprio ambito, a scegliere la via più impegnativa: quella della responsabilità condivisa, anziché del comodo rimpallo delle colpe.

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