29 dicembre 2017

Le religioni e i loro leader devono riconoscere la propria responsabilità sulla guerra e sulla pace

“Se queste religioni hanno il potenziale di causare la guerra, allora hanno anche il potenziale di portare la pace, che è il loro messaggio comune”

Jocelyn Y. Hattab, MD*
Sono felice di aver potuto partecipare, un anno fa, al Comitato Interreligioso per la Pace sotto l’egida della sezione israeliana della Universal Peace Federation. 
Mi sono unito a questa importante ed onorevole organizzazione come ebreo praticante – convinto dal messaggio della Torah, la Bibbia ebrea e la sua legge orale. 
Secondo la mia comprensione delle cose, le tre religioni monoteiste, Giudaismo, Cristianesimo e Islam, sono responsabili dello stato di guerra vissuto per secoli e ancora oggi in corso tra queste tre comunità. In quanto tali, è loro dovere religioso risolvere questa situazione insopportabile e distruttrice, che è un anatema per il messaggio delle nostre fedi. Citando la sig.ra Yael Ben David del Program of Conflict Management and Resolution, presso la Ben Gurion University: “Se queste religioni hanno il potenziale di causare la guerra, allora hanno anche il potenziale di portare la pace, che è il loro messaggio comune”.
La nostra attenzione ora è rivolta alla situazione attuale, perciò rivedrò solo brevemente le radici più antiche di questo nostro conflitto, nato in tempi molto distanti.
Sostengo che il conflitto attuale tra ebrei e musulmani, tra israeliani e palestinesi, è un conflitto religioso. Anche se pare un problema basato su pretese territoriali, un problema di confini da accettare e porre in sicurezza, e di libertà – come le guerre viste in Europa dal Medioevo ai nostri tempi, o i conflitti tra Cina e Giappone per alcune isole, o tra l’Argentina e l’Inghilterra per le isole Falkland – in realtà non è così. Questo è la ragione fondamentale per la quale tutti i piani, trattati e proposte dei paesi occidentali sono stati rifiutati: perché non si occupano della vera radice del conflitto. 
Secondo la Bibbia, dopo Mosè, Giosuè propose la pace ai sette popoli che vivevano nella Terra Promessa, in cambio della loro subordinazione. Il loro rifiuto a questa proposta condusse alla guerra e alla vittoria del “Popolo di Dio”, perché vivere in questa terra era l’ordine e la promessa di Dio per Israele (Genesi 12:7). Il Signore apparve ad Abramo e disse: “Alla tua discendenza darò questa terra”.
In seguito, i Giudici e i re d’Israele condussero molte guerre per proteggere il loro popolo, dette “guerre ordinate”, milhemot mizva, oppure per conquistare nuovi territori (“guerre facoltative”, milhemot reshut). Durante il loro esilio di 2000 anni, gli ebrei furono prevalentemente occupati con questioni più elementari come la propria sopravvivenza, e talvolta entrarono come soldati regolari negli eserciti degli stati dove risiedevano – persino combattendo contro altri ebrei!
I musulmani, come gli ebrei, sono profondamente legati alla loro testo sacro, il Corano. Questo è vero, anche se, in entrambi i casi, alcuni si dichiarano non religiosi. Una terra che ha visto il dominio islamico rimarrà musulmana in eterno. Sarebbe una trasgressione religiosa permettere il dominio di miscredenti su questa terra. Presto o tardi, questa terra sarà redenta dal popolo di Allah, con la guerra o altri mezzi. Tutti i paesi che non sono ancora sotto il dominio islamico sono Dar El Harb, “lo spazio delle spade”; tutti gli altri sono Dar El Salam, “lo spazio della pace”. 
Quindi, per questo dico che la ricerca di uno stato da parte dei palestinesi musulmani, precisamente in questa area geografica, è una rivendicazione politica, ma anche religiosa. I palestinesi avrebbero potuto stabilirsi in molti altri stati arabi/islamici, come hanno fatto molti altri popoli nella storia. Ma c’è un elemento in più: devono obbedire all’ordine di Dio di liberare e purificare la terra dei seguaci di Satana – gli ebrei. I musulmani più estremi, quelli che usano il terrore per i loro scopi, affermano che lo fanno in nome di Allah, come prescritto dalla loro religione, e per soddisfare Allah e il Suo profeta. Credono che l’essere shahid (martiri) permetterà loro di entrare nel paradiso di Dio e abitare con Lui e il Suo profeta. 
Questa linea di pensiero ha condotto a guerre terribili, spargimenti di sangue, deportazioni, crimini, umiliazioni e molte altre trasgressioni della Legge di Dio, con qualunque nome Lo si chiami. 
Affronterò anche, logicamente, anche il ruolo del Cristianesimo nelle guerre nella nostra Terra e in altre, nonostante mi sembri meno rilevante agli scopi della nostra discussione di oggi. Musulmani ed ebrei hanno sofferto, non solo sotto i crociati dell’XI e XII secolo, ma anche per le persecuzioni in territorio europeo. Oggi, gli arabi cristiani vivono sotto un regime di repressione e talvolta di sterminio, in paesi islamici.
I rapporti, da molto tempo problematici, tra ebrei e cristiani vanno al di là dell’ambito della nostra discussione qui. Rilevanti ai nostri scopi sono gli atteggiamenti delle autorità cristiane nei confronti dello Stato di Israele. I quali sono, come minimo, ambivalenti. Teologicamente, era evidentemente molto difficile accettare il ritorno del popolo ebreo nella sua stessa terra, dopo secoli di condanne e affermazioni sul fatto che il popolo ebreo era maledetto da Dio e che sarebbe sempre rimasto in esilio, a causa del loro fallimento nel riconoscere Gesù come Messia. 
Queste posizioni portarono all’opposizione dello stabilimento dello Stato d’Israele, e aperto sostegno agli arabi – un serio ostacolo ad ogni possibile processo di pacificazione o riconciliazione tra tutti i figli di Abramo sotto la benedizione del Papa e dei leader cristiani.
Solo ora, Papa Francesco dichiara un atteggiamento chiaramente positivo nei nostri confronti, come popolo e come Stato. La civiltà occidentale è estremamente riluttante nel dare alla religione peso, o un ruolo, nelle questioni politiche – specialmente quelle relative alla pace e alla guerra. Questo si può ricondurre alla tradizione francese della laïcité. La religione deve rimanere una questione personale, privata. Ad ogni modo, l’unico argomento valido e sostenibile a favore dello stabilimento del popolo ebreo in questo specifico territorio – persino con la forza e la guerra – è un argomento religioso. È significativo che i primi coloni, i “pionieri”, i padri dello Stato d’Israele non fossero ebrei praticanti, né credenti, ma che al tempo stesso fosse ovvio per loro che la rinascita di Israele non potesse che avvenire nella Terra Promessa, chiamata Terra di Israele. Il nome stesso, Israele, fornito dalla Torah. È il nome dato da Dio a Giacobbe, dopo la sua lotta con l’angelo. Israele è il nome del popolo ebreo, dato da Giacobbe dopo che realizza il suo progetto morale, secondo il messaggio biblico. Nessuno in Israele, neppure gli individui più antireligiosi, e ce ne sono parecchi, sarebbero d’accordo per cambiare questo nome. 
L’argomentazione storica portata dagli ebrei laici per evitare l’argomentazione religiosa è, in realtà, radicata nelle Sacre Scritture. Un noto leader di questi pionieri, Abba Hillel, riconosce questo punto, affermando: “Dobbiamo ai nostri fratelli praticanti e alla loro fede il diritto di stabilirci in questo paese”. Tutte le altre argomentazioni non possono reggere di fronte alle critiche. Anche se la Shoa, l’Olocausto, ha giocato un ruolo cruciale nel voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947 per la creazione dello Stato d’Israele accanto uno Stato palestinese, la Shoa e la colpevolezza delle nazioni europee non possono giustificare la deportazione degli arabi che vivevano in questa terra e la creazione di un’altra entità nazionale. Se doveva essere una riparazione per la vergogna del mondo occidentale verso il popolo ebreo, avrebbero dovuto dare al popolo ebreo una provincia della Germania. Non c’è motivo per cui gli arabi dovrebbero pagare per il crimine degli europei. 
Un’altra argomentazione viene utilizzata dai difensori dell’insediamento degli ebrei in Israele. Si tratta del fatto che i coloni ebrei sono riusciti a rendere la terra fertile in un modo che nessuno dei loro predecessori ha eguagliato: né gli antichi romani, né i crociati, né gli ottomani, né i britannici, né gli arabi. Questo è un fatto straordinario – per alcuni, un segno di Dio del fatto che questa terra appartiene a Israele, il popolo ebreo -, che solo questa comunità ha avuto successo, dove gli altri hanno fallito. Lo vedono quasi come un miracolo, che questa terra sia ora così ricca e prospera, e così bella, dopo secoli di sofferenze.
Da tutto ciò possiamo desumere che solo il riferimento alla credenza biblica, la promessa fatta da Dio al Suo popolo ebreo, basata sull’idea che questa terra Gli appartiene, e Lui decide a chi donarla, può giustificare il ritorno degli ebrei alla loro terra, anche a costo di una guerra, e molte morti e sofferenza da entrambe le parti.
I popoli, inclusi gli ebrei e i palestinesi, hanno diritto a un loro stato. Tragicamente, la realizzazione del diritto di una parte non può essere raggiunta senza un danno terribile al diritto dell’altra. La creazione di uno Stato ebreo, in effetti, fu una catastrofe, una nakba, per il popolo palestinese. Ma la mancata creazione di uno Stato ebreo sarebbe una catastrofe per il popolo ebreo, come la fu al tempo della Seconda Guerra Mondiale e del rifiorire dell’antisemitismo in Europa e in America.
Rifiutarsi di ricostruire uno Stato ebreo mentre ciò è possibile potrebbe essere considerato una mancanza dal punto di vista religioso, contro la volontà di Dio.
La mia affermazione è chiara: in molti modi le nostre tre religioni, a causa delle nostre credenze, posizioni e azioni come credenti praticanti, creano questa terribile situazione tra di noi, gli ebrei e i nostri cugini, i musulmani – in generale, e più nello specifico, in Terra Santa.
Tenendo questa responsabilità in mente e nel cuore, abbiamo quindi l’obbligo religioso di riparare ai nostri errori e portare pace – prima tra i nostri due popoli, e, se va tutto bene, per tutta l’umanità, come Dio ci ordina. 
Riconosco che non ci sono soluzioni semplici e facili, per problemi complessi e complicati. Non sono naif, solo ottimista.
[…]
Il primo e incondizionato passo deve essere una dichiarazione congiunta, nello stesso tempo e luogo, Gerusalemme, di leader rappresentanti le nostre tre religioni, che affermino e accettino la loro responsabilità, la loro colpa nelle sofferenze delle altre due religioni durante tutta la storia, fino ai nostri giorni.
Organizzazioni interreligiose e gli Ambasciatori di Pace della UPF possono e devono essere determinanti nel formulare una tale dichiarazione e nel convincere i leader: auspicabilmente il Papa, rabbini capo di Israele e in altri stati, sceicchi -nel mondo musulmano e specificamente nell’Autorità Palestinese.
Il secondo passo, e potrà essere parte dello stesso evento, sarà dare e chiedere perdono, ciascuna religione nei confronti delle altre. Papa Francesco ha già fatto questo passo. Nessuno può perdonare qualcuno che non ha riconosciuto la propria colpa. 
Questi due passi apriranno la strada, e daranno speranza per una migliore comprensione e buona volontà a realizzare i nostri valori condivisi, che includono il più alto rispetto per la vita umana, e la nostra fede in diritti universali per ogni essere umano, di vivere in pace, in uno stato accettato e riconosciuto, e al sicuro. Il nostro messaggio religioso, condiviso tra tutti, in quanto è scritto nella Bibbia (in tutte le sue parti), nel Corano e nelle ahadith, deve essere la nostra base comune per le nostre discussioni verso quello che sarà sicuramente un compromesso. Questo compromesso non sarà riguardo i nostri credi religiosi, sui quali, per definizione, non possiamo raggiungere un compromesso, ma piuttosto sulla nostra realtà umana e volontà di vivere insieme. E se uno vuole convincere suo fratello a unirsi alla sua fede, lo farà con una discussione onesta, dando il proprio esempio di comportamento giusto, ma mai con la forza, la tortura, l’intimidazione, e la minaccia di morte. Abbiamo più cose in comune, condividendo lo stesso messaggio fondamentale che ci permette di vivere insieme, fianco a fianco.
Il nostro primo compito è educare i nostri figli con questi valori, e sradicare da tutti i materiali educativi, soprattutto nei libri di scuola e in tutti i tipi di media, ogni umiliazione e istigazione all’odio verso l’Altro.
In questo, gli Ambasciatori di Pace della UPF possono e devono giovare un ruolo chiave nello stabilire dei comitati per monitorare e correggere i libri e i media in tutti i paesi interessati.
Alla sua nascita, lo Stato di Israele era prevalentemente secolare, rigettando, talvolta aggressivamente, la religione e gli ebrei praticanti. Identificandosi come uno “Stato ebreo democratico”, lo Stato di Israele permise a tutti i suoi cittadini, ebrei, musulmani, drusi, cristiani e molti altri, di praticare liberamente la loro fede.
Gli ebrei che vivono in Israele, all’incirca 8 milioni, provenienti da più di 50 paesi, sono estremamente legati al messaggio biblico, come unica vera giustificazione alla loro permanenza qui. Sembra anche che le pratiche della legge ebrea (halacha) siano in aumento. Gli ebrei danno un significato religioso alla loro permanenza nella Terra Santa, che può portare a una migliore comprensione tra ebrei e arabi riguardo i loro insegnamenti comuni e le loro differenze. Molti leader arabi musulmani vedono Israele come uno Stato secolare che rifiuta la volontà e il messaggio di Dio. In quanto tale, nella loro ottica stiamo dissacrando la Terra Santa. 
Israele è considerato variamente come lo Stato ebreo, o come lo Stato di Israele. Per molti israeliani ebrei, c’è una complementarietà tra questi due concetti. Anche se, almeno al giorno d’oggi, un ebreo può vivere quasi ovunque nel mondo, vivere in Israele è la realizzazione della propria “ebraicità”. Ma c’è tensione tra queste due facce dell’identità ebrea. 
Gli ebrei ultraortodossi, o H’aredim, si considerano ebrei senza alcun legame con Israele come Stato, affermando che solo il Messia può autorizzare la rifondazione del Regno di David. Al polo opposto, ci sono ebrei israeliani che rifiutano la loro identità ebrea, e si considerano laici e umanisti. Rifiutano ogni tipo di messaggio biblico, a parte quello storico, per giustificare la loro presenza qui. Agli albori dello Stato, c’era persino un movimento chiamato “I Cananei”. Ci sono alcuni estremi del genere, e quasi tutti gli ebrei si trovano da qualche parte a metà tra questi poli. Essere “di destra” è essere “più ebreo che israeliano”, o, in maniera più comprensiva, include la “israelianeità” come parte della propria “ebraicità”. Essere “di sinistra” vuol dire affermare che essere israeliano è sufficiente, come essere francese o americano. Vuol dire sentire che il Giudaismo è una questione personale, che non ha niente a che fare con l’identità nazionale.
[…]
Non sostengo che sia buono o cattivo vedere il nostro conflitto così come l’ho descritto qui. Ma se ciò che dico è una riflessione veritiera della nostra realtà, dobbiamo considerare questi argomenti più seriamente e con mente aperta, e non dobbiamo rifiutare automaticamente ciò che è collegato alla religione. 
Finora nessuno dei numerosi politici o leader militari che si è impegnato negli ultimi cent’anni ha avuto molto successo. 
Abbiamo una lunga strada da percorrere, ma dobbiamo cominciare questo viaggio, per assicurarci che i nostri pronipoti -a Dio piacendo- vivranno in pace. 

* Membro del Jerusalem Forum for Understanding and Cooperation among Religions
Jocelyn Y. Hattab è nato in Tunisia nel 1942, ed è emigrato a Parigi, in Francia, nel 1945. Si è laureato alla Paris School of Medicine nel 1969, nello stesso anno in cui si è trasferito in Israele con sua moglie Claudine e i suoi primi due figli. Il Dr. Hattab organizza, insieme al sig. Ahmed Zaatara, un incontro mensile tra cittadini musulmani ed ebrei di Gerusalemme.

Nessun commento:

Posta un commento