23 giugno 2017

“Figlio e Padre”: il dramma di una normalità apparente

In scena al Teatro Petrolini di Roma un’opera giovanile dello scrittore Antonio Saccà per la regia di Sandro Calabrese

di Massimo Nardi
“Figlio e Padre”: un dato antropologico che affonda le radici nelle profondità della natura umana. Presente nella tradizione religiosa e nelle indagini psicologiche, nella ricerca sociale e nelle creazioni artistiche… tornano alla mente due bellissime opere ispirate a questo tema: il brano “Father and Son”, del cantautore britannico Cat Stevens, e “Il male oscuro”, il capolavoro letterario di Giuseppe Berto che operò un rinnovamento delle strutture narrative in un clima di grande effervescenza culturale. Era il periodo compreso fra gli anni Sessanta e Settanta, e la contrapposizione generazionale era il leitmotiv di una ricerca identitaria che investiva ogni campo dell’agire sociale: dal linguaggio alla moda, dalla musica agli stili di vita.
Più o meno in quegli anni, Antonio Saccà – che avrebbe poi conquistato una meritata fama come sociologo, autore letterario e poeta – scrisse un’opera giovanile intitolata “Ciao, Papà”, uscita nel 1971 sulla rivista “Opera aperta” e poi ripubblicata nel 2012 con il titolo “Figlio e Padre” nel volume “Teatro d’Autore” (Edizioni Artescrittura). Un dramma a tinte forti che scende nei meandri della psiche con lucidità d’analisi e compartecipazione emotiva, secondo lo stile che caratterizza la produzione letteraria e saggistica di Saccà. 
Sandro Calabrese

Oggi da quell’opera è stato tratto un adattamento teatrale per la regia di Sandro Calabrese, titolare di un prestigioso curriculum come attore, regista, doppiatore e insegnante, che l’ha portato a misurarsi con tutte le forme dell’espressione scenica: dal teatro alla televisione al cinema.
Il teatro scelto per il debutto è una piccola sala romana, il “Teatro Petrolini”, particolarmente adatto per una rappresentazione dove contano le sfumature interiori: sia nella lettura registica, molto attenta ai dettagli caratteriali, sia nell’interpretazione degli attori che, con sensibilità e stile misurato, danno vita ad incisive tipologie psicologiche. 
Per introdurre l’opera, occorre almeno accennare alla trama (pur senza anticipazioni eccessive, che rischierebbero di guastare l’esperienza inedita della visione e i momenti di suggestione che ne derivano…).
Sono a confronto due personaggi – appunto, “Figlio e Padre” – divisi da una incompatibilità insanabile che, paradossalmente, stabilisce tra loro una sorta di legame ambiguo. Sembra quasi che ognuno abbia bisogno dell’altro per sfogare i propri sensi di colpa, la propria incapacità di vivere. Attribuendo all’altro la responsabilità dei propri fallimenti, sia il figlio che il padre alleggeriscono la loro insostenibilità esistenziale, costruendosi un’illusoria armatura difensiva. Il padre si rifugia nella propria normalità apparente, nella rispettabilità piccolo borghese che gli ha consentito di “tirare avanti” la famiglia; mentre Luca, il figlio, si rifugia nel suo “mal di vivere” (di cui imputa la colpa al padre), legato anche alla sua condizione di disoccupato ultratrentenne privo di prospettive.
In questo gioco delle parti s’insinua la madre, alternando le sue personali frustrazioni con il tentativo di un impossibile ruolo di mediazione materna.
Antonio Saccà
Fino a un certo punto potrebbe sembrare un “normale” interno familiare contemporaneo, dove crisi economica, precarietà, disillusione, crollo dei valori e sfiducia nel futuro hanno generato una diffusa impossibilità di dialogo. Ma si avverte qualcosa di più: un’inquietudine, un che di malato, un dramma senza uscita, che unisce i destini dei protagonisti in un giudizio senza assoluzione. 
Emblema di questo dramma è la sorella di Luca, presenza muta ma inquietante: nulla è detto della patologia di cui soffre (tossicodipendente, affetta da autismo?) ma il suo apparire in scena contribuisce al senso di ineluttabilità incombente. 
Per un breve momento il quadro sembra rasserenarsi. Un lavoro per Luca, una relazione sentimentale, il sogno di un’esistenza normale… Ma la vita – e la finzione scenica – sono in agguato. Proprio in quel momento, il disadattamento psicologico, che pareva il riflesso di tensioni in qualche misura controllabili, oltrepassa il livello di guardia e sfocia nella psicopatologia. Con esiti di forte impatto emotivo che l’abilità dell’autore, del regista e del gruppo attoriale riescono a rendere attraverso un imprevedibile colpo di scena. 
Si tratta indubbiamente di un’opera coraggiosa e complessa. Un’opera che fa pensare (come, del resto, l’intera produzione letteraria di Antonio Saccà). Che non teme di scendere nei sentieri impervi della mente per leggervi le oscure trame delle alterazioni psichiche.
Ma al di là dell’aspetto intellettuale che, in un’opera d’arte, costituisce un dato necessario ma non sufficiente, ciò che colpisce è l’efficace teatralità dell’impianto, che cattura l’attenzione dello spettatore senza concedergli un attimo di tregua; l’ingranaggio creativo che determina una precisa e credibile corrispondenza fra il testo letterario e la sua trasposizione scenica.
Ci è sembrata di alto livello la prova di Massimo Anzalone (interprete di Luca), un attore giovane ma già maturo e consapevole. La sua è una interpretazione senza enfasi, che riesce a concentrare in una sorta di dolorosa fissità espressiva tutto il dramma della sua condizione irrisolta, la fragilità della sua psiche malata.
Ma anche gli altri attori meritano una citazione: da Ivan Costantini, il padre di Luca, pienamente credibile nelle sue tormentate contraddizioni, a Giuseppina Matera, nel ruolo della madre, capace di momenti di silenzio e di ascolto. Marina Alemanno ha interpretato la sorella di Luca con silenziosa ma intensa presenza scenica; Francesca Mazzocchitti, nel ruolo di Lisa, la fidanzata di Luca, ha alleggerito la tensione con istanti di vivacità; Angelo Pelagalli e Sabina Tutone hanno dato vita a sapienti ruoli da caratterista interpretando rispettivamente l’uomo di successo e la prostituta alla quale s’accompagna Luca. 
Di più non vogliamo aggiungere del terribile finale, nella certezza che “Figlio e Padre” sarà un’interessante sorpresa per lo spettatore attento che apprezza il teatro contemporaneo di qualità.

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