12 giugno 2016

Vicende del Professor Kappa


di Antonio Saccà
Il Professor Kappa chiese di botto al Signor Alfa, erano al Bar Ceppo Nuovo, Sala Ceppo Verde, il Cameriere Leopoldo toglieva i piattini: “Ha per caso sperimentato, Signor Alfa, la fine di un amore?”. “No!”, rispose il Signor Alfa immediatamente, più per la sorpresa della domanda che alla domanda. “Allora è un uomo fortunato, Signor Alfa, lei ignora la morte durante la vita”.
Quando nei giorni successivi il Signor Alfa incontrava il Professor Kappa, al Ceppo Nuovo, non sempre nella Sala del Ceppo Verde, intendeva saper perché mai la fine di un amore è da pareggiare al morire. E infine, erano soli, Leopoldo badava ai suoi adempimenti, Anselmo, il Padrone stava alla cassa. “Lei vuol sapere perché dico che la fine dell'amore è come morire”, disse il Professor Kappa al Signor Alfa, prima che il Signor Alfa glielo chiedesse. Il Signor Alfa abbassò il capo. “Vivere, Signor Alfa, è desiderare, e desideriamo ciò che amiamo, anzi: amore e desiderio fanno una sola medaglia. La più straordinaria concessione che la sciaguratissima Natura ha donato agli uomini è il desiderio amore, se desidera amando e amando desidera, vive. Ora il sommo desiderio amore è verso la donna o sia chi sia, se cessa questo desiderio amore cessa la vita, Signor Alfa”.  Il quale Signor Alfa stava in silenzio. “Lei, Signor Alfa, mi vuole chiedere: come mai se vivere è desiderare amare perdiamo questa disposizione e moriamo in noi stessi e facciamo morire chi desideriamo amandolo? Perché in noi, Signor Alfa, non vi è soltanto amore desiderio, ma pure noia, stanchezza, voglia di novità, di conquiste... Certo che vedere una persona amata allontanarsi senza che tu ne soffra o soffrendo di non soffrire, e lei magari si volta per scorgere se tu la chiami... l'esistenza è un cimitero di amori morti, Signor Alfa!”. “Vuol dire che Lei, Professor Kappa...”. Ma il Professor Kappa alzò le braccia e allargò le mani per fermare la curiosità del Signor Alfa.
Sovente al Professor Kappa sorgeva il fantasma della moglie, di colei che gli era stata moglie, poi separata, poi divisa, e della follia, e dell'orribile morte di lei, e considerava se doveva restarle accanto, se aveva colpa nell'averla tradita, ma se era possibile non tradirla, sempre malata, la moglie, e gelosa da intossicarlo, dove vai, che pensi, sei tornato tardi, a chi telefoni, che leggi, perché hai guardato la mia amica, era ricchissima, la moglie, inoperosa, il coniuge, il Professor Kappa ne costituiva l'occupazione, non alzarti, resta vicino a me, gli stringeva la mano con una mano lunga, tenera, stretta, in fondo chiedeva attenzione, amore, o lo voleva imprigionare? Il Professor Kappa smaniava, si agitava, e quando la moglie si riaddormentava correva dalla cameriera, che lo attendeva...
“Si lasciò morire? Appena egli se ne andò, si lasciò morire? Appena lui chiese la divisione finale, lei si lasciò morire? Fu per l'abbandono che lei morì”? Vorrebbe non concepire questa evenienza ma spesso gli appare l'estrema immagine di lei, grassa, enfiata, attonita, spenta, lo guarda con atroce rimpianto, desolatissima e inerte. Si lasciò morire? Era stata bellissima, i capelli neri e leggeri. Quanto l'aveva ingannata! Quanto l'aveva amata! Conficcata nel cuore della memoria. 
Fu quando egli era ragazzino che la madre infine si risposò. Dopo più che un decennio della morte del coniuge, si risposò. Aveva coraggiosamente mantenuto i figli, lui, innanzi tutto, il minore, fragilissimo, il più amato dalla madre e che più amava la madre, il nuovo sposo aveva gli occhiali e odorava di tabacco, giocava a carte e portava cibi mai assaporati, acquistava libri e pubblicazione che il futuro Professor Kappa leggeva appena giunse all’adolescenza. Una pubblicazione sopra tutte: “L'adunata dei refrattari”. Il padrigno si dava atteggiamento ribelle, ma era soltanto irascibile, avverso a tutto e a tutti, sebbene generoso, invece nel ragazzo l'amore per gli uomini che vogliono il bene degli uomini si fermò come una radice tentacolare, e un Cafiero, un Malatesta, un Pisacane lo sommergevano di pianti, e gli dispiaceva alla disperazione che Pisacane fosse stato ucciso e Cafiero si immiserisse per eccesso di altruismo. Quelli erano uomini. E si avventurava nelle loro imprese. Un giorno sarebbe fuggito. Adulto, considerava che per amore e per qualche ideale aveva sorpassato ogni vantaggio, e gli insorgeva qualche rimpianto, sì, ma in fondo aveva vissuto per amare ed esprimersi, era stato sé stesso, mai rinunciando ad ammirare chi si consacra alla Civiltà, costi quel che costi. E avrebbe proseguito questa convinzione.
Non era una abitazione, piuttosto, sarebbe stata una abitazione non fosse trasformata in un pandemonio di accumuli per voglia di prendere quel che gli piaceva. Schiavo del piacere? Padrone del piacere? Di sicuro aveva vissuto e viveva per il piacere del piacere. Cravatte?  Migliaia. Scarpe? Centinaia? Confezioni musicali? Molte migliaia. Penne? Decine. Camicie? Centinaia. Abiti? Centinaia. Statue, statuine, e chi le numerava! Ma l'apogeo erano i quadri: se il Professor Kappa scorgeva un angolino, vi poneva un quadro, anche minuscolo. Le pareti erano armate di quadri, corazzate, quasi tutti religiosi, lui non credente, ma vedere figure della religione nazionale o che egli avrebbe voluto nazionale, giacché le religioni o sono nazionali o perdono significato, così pensava, lo appagava, tornava bambino quando viveva nelle chiese e ascoltava il “Tantum ergo”, una chiesa personale, privata, le pareti grondavano di Gesù Cristi, di Crocefissi, di Madonne, aveva studiato dai Gesuiti, anche, un cattolico nazionale, romano, e se qualcuno gli avesse impedito di esporre quelle immagini, meglio la morte, e i greci, e i romani: riteneva il cattolicesimo la continuazione del culto della bellezza greco-romana, le civiltà delle immagini contro le civiltà senza arte visiva.  La musica, la pittura, la scultura, la vita, la sua chiesa estetica, il suo pandemonio. Il suo piacere di vivere a suo piacere.
Chiedeva al Signor Alfa il Professor Kappa: “Lei, Signor Alfa, considera l'uomo il suo fine?”. “Certo!”, rispose il Signor Alfa, premurosamente. “Sbaglia!”.
Chiede il Professor Kappa al Signor Alfa: “Lei, Signor Alfa, considera il suo prossimo come il fine dei suoi atti, colui al quale dare sempre bene?”. Temendo di sbagliare il Signor Alfa taceva. “Ha opportuni motivi per non rispondere, la faccenda è complicata. Vi sono persone alle quali faremmo del bene disprezzandole, anzi: che dobbiamo, è un dovere disprezzare. Altrimenti non c'è giudizio di bene e di male, di bello e di brutto, di nobile e meschino. Pensare esclusivamente a sé stessi è da bruti, ma perdersi in un così detto amore alla rinfusa, mai, se lo ricordi, chi vuole stimare è obbligato a disprezzare”.

UNA GIORNATA MEMORABILE DEL MAESTRO ELEMENTARE RADICE QUADRATA

 Il Maestro Elementare Radice Quadrata aveva avuto una giornata micidiale e tornato a casa, serrò la porta, convinto estremamente che egli riusciva ad apprezzare, amare talune persone ma che la Società era diventata un manicomio o una prigione che sopprimevano il cittadino e gli facevano rimpiangere i deserti, gli oceani, gli spazi stellari dove non esistevano quelle corde vincolanti che rendevano l'uomo, appunto, preso come da un manicomio o una prigione. Ma come potevano taluni godere di inventare sempre nuove forme di imposizioni e darvi tanto rigore al punto che vivere diventava impossibile, muoversi un combattimento! E quanti pericoli, quanti eventuali errori, quali punizioni. Insomma, l'Inferno era nell'aldilà o nell'aldiquà? Due giorni prima, un gomitolino di carta nella buca delle lettere, gli si diceva che essendo egli, Radice Quadrata, non in casa doveva presentarsi a ricevere una missiva di quelle rigorose, nel posto tale dalle ore tali. Già questo editto gli aveva mozzato il sonno e al buio guardava il soffitto dove gli scorrevano tregende impauritive, e che lo volevano processare, che esigevano denaro, che qualche donna lo riteneva un molestatore, non riusciva a riferire questi sospetti a sue azioni, ma la Società non doveva dar conto ad alcuno, non esisteva un Ente sopra la Società, si che se qualcuno di quei fanatici delle legge, i Tenutari dei manicomi e delle prigioni, appunto: della Società, se lo voleva aguzzinare, libero di farlo, tanto per dimostrare la forza della Società”.
Il giorno e l'ora in cui gli era consentito di conoscere quale tentacolo del mostro sociale ce l'aveva con lui, il Maestro Elementare Radice Quadrata, solo, rifugiato in sé, con quella spada nel fianco cominciò il viaggio per scoprire il mistero della comunicazione. Il luogo era lontanissimo, il caldo opprimentissimo. Chiedeva notizia del luogo, ignorandolo. Uno, appena gli fece domanda, cominciò a parlare e indicare e precisare e suggerire, addirittura lo accostò e dava segni, il Maestro Radice Quadrata ripeteva di aver capito, senza effetto: non prenda questo, prenda quello, poi un incrocio, non si fermi, a destra, ancora a destra... grazie grazie, il Maestro Elementare Radice Quadrata ringraziava inutilmente, quello non voleva essere ringraziato, voleva parlare...
Era sbagliata la strada alla quale lo avevano fatto andare. Un passante gli precisò dove recarsi secondo la dicitura della missiva. E vi giunse. Una donna grassissima iniziò la ricerca tra  moltissime carte accostate, non trovò ciò che cercava, riprese a cercare, niente, ancora, e ancora niente, disse al Maestro Elementare Radice quadrata che avrebbe chiamato il servizio che poteva risolvere la situazione, chiamò, non subito ma infine qualcuno rispose e dettò un numero che  la donna grassissima dettò al Maestro Elementare Radice Quadrata, che a sua volta chiamò, una voce gli rispose e disse che era necessario conoscere il codice, cosa?, il codice, sì, il codice  nel ritaglietto pervenuto al Maestro Elementare Radice Quadrata, il quale sbrogliò il rettangolo e comunicò il codice, l'altro chiese un istante, restò in silenzio, poi disse che sotto quel numero non vi era missiva, poteva rileggerlo? Il Maestro Elementare Radice Quadrata lo rilesse dettandolo. Un momento! Silenzio. No, sotto quel numero non vi era missiva. Lo poteva rileggere e ridettare? Il Maestro Elementare Radice Quadrata rilesse e ridettò. Ecco, esclamò la voce, ma lei non mi aveva detto uno zero, l'avevo detto, non l'aveva detto, ora l'ho detto, l'ha detto ora, un momento, silenzio, la sua lettera si trova in via... una strada vicinissima all'abitazione del Maestro Elementare Radice Quadrata. Com'è possibile... già, com'era stato possibile quell'errore, ma non disse parola il Maestro Elementare Radice Quadrata. 
I mezzi di trasporto scomparsi, il sole sul corpo nettamente, gocce sugli occhi, nella schiena, la zona ignota, e l'incubo di quel che avrebbe conosciuto, chi aveva interesse a colpirlo, lui che non si sentiva cittadino ma esclusivamente un privato naturale! 
Un pagamento, un infimo, codardo pagamento, che egli non aveva pagato, e lo minacciavano, a partire da quando riceverà, interessi, pene... e invece aveva pagato, trovò il foglietto, la stessa cifra, al millesimo. Controllò che la porta fosse chiusa, forse meglio murarla, quella non era una Società per gli associati, era una Società nemica, da temere, era la persecuzione incarnata. Ma perché non si dimenticavano di lui come lui voleva dimenticarsi della Società! 
Il Professor Kappa, nel Bar Il Ceppo Nuovo, sala il Ceppo Azzurro, talvolta chiedeva ai soliti frequentatori domande del genere: “A vostro giudizio è preferibile la donna appiccicosa o la donna spiccicosa?” Il Dottor Gamma rispondeva sempre immediatamente. In questo caso disse: “La donna spiccicosa, voglio essere un uomo libero!”. “La donna appiccicosa”, disse il Signor Alfa, “Sentire amato”. “Avete ragione tutte e due”, concluse il Professor Kappa. Concluse, per modo di dire, giacché il Dottor Gamma ripeteva che era da preferire la donna spiccicosa, e poiché il Professor Gamma non rispondeva, attaccò il Signor Alfa, senza smuoverlo, tuttavia.
Il Professor Kappa aveva avuto relazioni con donne almeno al pari del celebrato scrittore Gabriele D'Annunzio. Si innamorava o gli piacevano, e non sostava pur di ottenere la soddisfazione del desiderio, amore o godimento che fosse. In fondo era vissuto per la donna, passioni, gelosie, tradimenti, nascita e morte del sentire, la vita, insomma. Ora, nell'ultima età, non soltanto non rinunciava alle donne ma intendeva amarle o goderle animatamente, e poiché manteneva un aspetto che non gli toglieva la giovinezza del corpo e della mente, non si faceva pensiero degli anni, e amava e faceva l'amore. Questo il suo modo di considerarsi e di comportarsi. Oltre la moglie, si concesse come sempre un'amante, meno della metà dei suoi anni, sfolgorante di rigoglio femminile, pareva tolta di peso da un quadro di Tiziano o di Rubens, una abbondanza di carnalità rosa bianca e l'aria di abbandono voluttuoso con gli occhi larghi. Meraviglioso! Niente affatto. La donna era divisa dal coniuge e però lo amava ancora, al punto che, pur accompagnandosi al Professor Kappa, costui supponeva che incontrasse ancora il coniuge. Avvenne che un giorno la donna confessò al Professor Kappa di essere in attesa di un figlio, e che il figlio apparteneva al Professor Kappa, che ne fu atterrito e le chiese subitaneamente di liberarsene. Quel che avvenne nei mesi necessari per la maturazione del concepito è da romanzo, il Professor Kappa a invocare, imporre l'eliminazione, la donna a fingere di accettare e spostare i giorni, fino a che sarebbe stato contro legge non partorire naturalmente, il Professor Kappa tentava ancora, inutilmente. Il figlio nacque. Ma, orrore nell'errore, a fare i conti, giorni dopo che la donna aveva avuto rapporti con il Professor Kappa, in quanto poi si era recata nel paese natio dove restava il coniuge. “Di chi è questo bambino?”, il Professor Kappa era fuor di mente. La donna impiastricciò variazioni, di certo che il figlio non era del Professor Kappa, che respirava e non respirava. Che non fosse suo figlio, lo felicitava; che fosse un figlio della sua donna ma non suo, lo incupiva. Ti lascio, non ti lascio, falsa, pazza, basta... settimane a non sapere che fare, troppo ingannatrice per restare con lei, troppo bella per separarsene. Infine, glielo rivelò, era tornata nel suo paese per strappare al coniuge amato il seme di un figlio. E ne aveva difeso la fioritura con ogni inganno, sì, sì.
Un giorno il Professor Kappa conversando al telefono con la donna senti un suono minimo e credette che lei avesse preso un gattino, e glielo chiese, no, disse la donna, è mio figlio. Il Professor Kappa barcollò, gli parve che la Vita direttamente attestava la presenza, e nei giorni successivi acuiva l'udito per riascoltare quella minuzia che veniva dalle sorgenti dell'essere. Poi lo vide, il nuovo nato. Un colpo di fulmine. Il faccino chiuso nel sonno. Accadde così che il Professor Kappa non soltanto sprazzò ogni questione sul figlio suo o non suo, sull'inganno della ragazza, ma ebbe una gioia che lo straripava a vedere il bambino, e se la madre non glielo recava si intristiva come quando si intristiva a non incontrare lei. O maggiormente?

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