30 dicembre 2015

La vita e la morte: i casi di Socrate e di Gesù

Antonio Saccà ci offre una sua riflessione filosofica su questo tema

Tra le morti possibili, in Occidente, quella di Socrate è diventata esemplare, una delle possibilità del morire, un modo di morire che appunto viene considerato esempio di morte da imitare o inimitabile, tanto è sovrana. Non distinguiamo se la morte di Socrate è la morte di Socrate o la morte di Socrate narrata da Platone. Indubbiamente Platone non inventò la morte di Socrate, la maniera in cui la narrò la rende veritiera ed esemplare. È l'esemplarità del controllo di sé, del non stabilire un vertice, una vertigine di spaccatura tra la vita e la morte. Non vi è il grido di chi soffre di morire, non lo strazio del perdere l'amore di se stesso e degli altri, bensì un passare dall'una all'altra condizione, quasi non accadesse niente di tragico o di cui dolersi. Questo “passare” per alcuni è una conquista, la conquista del saper morire, ed anche lo scopo della filosofia. Non condivido tale presunta conquista, tuttavia riconosco che disperarsi di morire non risolve la morte. Socrate muore, è cosciente di morire, vuole morire non nel senso di voler cessare la vita ma di accettare le leggi che gli impongono di morire. Osserva i movimenti della morte, l'avanzamento della morte mediante il veleno, quando egli non sarà più cosciente di morire, morirà, fino all'ultimo sorveglierà la morte, la tiene sotto lo
sguardo, sa di morire e non si dispera, sa che tra qualche attimo, qualche ora cesserà quella terribile coscienza che ha dominato l'intera esistenza, ma non si rattrista della perdita, la vita è vita finché è vita, quando è morte è morte: accoglie quel che accade secondo natura. La sua vicenda ha di proprio questo accadere della morte sotto vigilanza di Socrate e dei suoi discepoli, degli amici, una morte sociale, che non ha alcunché di tragico, un saluto più che un addio, ultimi consigli,  ultimi doveri, nient'altro. Eppure questa morte cosi elementare, così disinvolta, è diventata esemplare. Perché? Perché non moriamo cosi, e innanzitutto perché chi muore, è Socrate. Quanti uomini sono morti come Socrate. Ma non erano Socrate. La morte di Socrate diventa esemplare perché quel morire e il morire di Socrate. Insegna qualcosa questa morte? Dovrebbe morire così anche colui che non è Socrate?  Platone lo suggerisce. Consegnarsi al non essere, anche se il non essere non è assoluto non essere, vi sarebbe la persistenza dell'anima. Eppure non è in nome della persistenza dell'anima che Socrate accetta di morire calmo, se alcuni greci credevano alla persistenza dell'anima, non ne facevano una ragione di serenità: tu muori ma non muori, tu muori ma l'anima è immortale... No, i greci non erano cristiani. È proprio il coraggio di morire che li distingueva, certi di stare in un ordine cosmico ben diretto dove vi era il tempo della vita e il tempo della morte, che  il tempo della morte fosse il tempo dell'anima era una concessione, un di più, non sempre  ben considerato, da molti addirittura negato. Platone è colui il quale sommamente pone rilievo all'esistenza dell'anima, però anche in Platone è la forza, il dominio sulle passioni, il non alterarsi. Il non dare spazio al soffrire, il ritenere che l'uomo deve vincere il dolore, che il dolore è una sconfitta umiliante, bisogna che le passioni siano sottomesse, anche la passione del morire e del perdere gli amici e la vita. Felici di vivere, non infelici di morire. La Grecia. I greci. Vi è un'altra morte esemplare in Occidente, antisocratica, la morte di Gesù Cristo. Incomprensibile che Gesù Cristo muoia per risorgere, addirittura nel corpo. Se Dio è buono perché deve sacrificare il figlio, non bastava la bontà di Dio a “salvare” gli uomini? Che bontà vi è nel sacrificare il figlio? È talmente buono Dio da sacrificare il figlio?! Davvero sorprendente, un padre che sacrifica il figlio, per diventare padre dell'umanità compie l'atto più orribile che esista, l'uccisione del figlio... Ma il figlio non muore! È dunque una commedia, una pantomima? Ancora peggio, questa finzione se poi in fondo la morte non c'è. O c'è? Il mistero della morte di Cristo è nel mistero di Cristo in Cristo. Egli si considera il Figlio di Dio, pertanto invulnerabile. Ma sarebbe vero come uomo e come Dio. Non è invulnerabile come uomo? Questa doppia presenza e la sua problematicità stanno nel campo della fede, luogo senza discussione. E però allorché Cristo è crocifisso si accorge di essere soltanto un uomo? I credenti ci offrono una spiegazione diversa, proprio perché Cristo è Dio e uomo in certi momenti soffre come uomo e soltanto quale uomo, al pari di noi, fraternamente… Sia che sia, la fede è fede perché non intende discutere e dubitare. Tuttavia sembra che nel morire Cristo si accorse di essere esclusivamente un uomo, non Diouomo, nella sofferenza è soltanto uomo, un Diouomo non potrebbe ricevere sofferenza... Il PadreDio non c'è, Cristo o non è figlio di Dio o è un figlio che Dio ha abbandonato relegandolo all'esistenza esclusiva di uomo, “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”, lo grida Gesù, non siamo noi a concepire il grido. Non possiamo tralasciare questa invocazione. Cristo è certo che Dio l’ha abbandonato. Immaginare che egli lo dica perché in quel momento è soltanto uomo, è inconcepibile, come fa ad essere Cristo soltanto uomo, come fa a spogliarsi dell'essere Dio, non è immaginabile che Gesù ora sia Dio, ora sia uomo, è al di fuori anche di una logica della fede. Se Dio l’ha abbandonato, è Cristo che lo dice, essendo Cristo veritiero, Dio lo ha abbandonato davvero. O, piuttosto, cosa è avvenuto? Che Cristo ha coscienza di essere soltanto un uomo, l'abbandono di Dio significa che Cristo non è più Dio, non è l'abbandono di Dio in quanto non esiste Dio, ma Dio esiste come Dio e Cristo esiste soltanto come uomo, l'abbandono di Dio è l'abbandono dell'illusione di Cristo di essere figlio di Dio e come tale Dio, è la perdita della figliolanza divina. Le sofferenze, i patimenti del tutto umani, di cui Cristo è vittima li comprendiamo, è il “povero Cristo”, un povero cristo, un uomo. Siamo nell'antisocratismo. Cristo soffre di morire proprio perché è uomo, la differenza con Socrate è assoluta, Socrate non patisce di morire per dimostrarsi uomo; Cristo soffre di morire proprio in quanto uomo, la condizione umana di fronte alla morte è una condizione di sofferenza, morire e soffrire, morire e l'abbandono dell'illusione dell'immortalità, o, piuttosto, di avere un Dio che  ci protegge, moriamo, e basta. Soltanto morte. “Perché mi hai abbandonato?”. “Ma perché ti eri illuso. Perché ci hai abbandonato?  Perché la vostra era un'illusione, non sono io, Dio,  che vi ho abbandonato,  Cristo e voi tutti  convincetevi di non essere  figli di Dio, che non esiste un Dio che vi protegge,  Dio non soccorre né  Cristo, né gli altri uomini, lasciandovi soffrire e morire”. Ecco la visione che Cristo ebbe, e gridò... Di fronte al dolore e alla morte tutte le illusioni di Cristo finiscono. Voleva addossarsi i dolori del mondo e morire al posto dell'umanità perché Dio risparmiasse l'umanità e colpisse solo lui. Inconcepibile. Un Dio buono che bisogno aveva di un figlio, Cristo, che si offrisse in sacrificio, perché questo residuo di sacrifici antichi quando Dio andava placato con animali o addirittura con esseri umani? Ma quello era un Dio malvagio che bisognava rabbonire ma un Dio buono che bisogno aveva di un sacrificio, o forse Cristo più che placare Dio voleva semplicemente sostituirsi a tutti gli uomini, prenderli in sé, sacrificarsi lui perché gli altri non soffrissero, fossero “risparmiati” da Dio? Sospettava che Dio fosse malvagio? In ogni caso, non possiamo immaginare che Cristo abbia sofferto per noi e si sia addossato tutti i nostri mali e i nostri dolori, e non abbiamo più né il male né il dolore. Non è così, questa era un'illusione personale di Cristo, una generosissima e vana illusione... Ciascuno di noi rimane il cristo di se stesso... L'altra morte, quella di Cristo, è dunque la morte nella disperazione, la disperazione di morire, abbandonati da Dio e senza poter immaginare che la nostra morte rimedi il dolore degli altri, che moriamo noi perché vivano gli altri, non c'è nessuna madre, nessun padre che proteggono il figlio, ciascuno muore della sua morte insanabile, nessuno si sostituisce alla morte degli altri, la morte di Cristo svela la sorte umana, quando saremo sul punto di morire Dio ossia l'illusione che qualcuno ci salvi perisce, ci abbandona. Per un lungo tratto, Cristo muore rappresentandoci un “povero cristo”, straziato, vinto, succube, uomo, insomma. Poi, chi ha fede, lo consideri secondo la sua fede. Socrate o Cristo? Entrambi. Ciascuno scelga se non la morte, il modo di morire, da solo, di fronte agli altri, coscienti che Dio non ci ha abbandonato, esiste, coscienti che Dio ci ha abbandonato, coscienti che Dio non c'è, serenamente, tragicamente... Non cambia niente, la morte non si cura di queste nostre recitazioni, ha solamente uno scopo e lo coglie come il controllore del gioco che fa banco ad ogni carta. Di fronte alla morte non c'è padre per nessuno. Né obbligo di virtù. Né esemplarità. Credi quel che vuoi e in chi vuoi. Muori tu. E finisce tutto. Credi che non finisce tutto? Credilo. Finché vivi!

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