12 novembre 2015

INDONESIA: INQUIETUDINI E SPERANZE NELL’ “ARCIPELAGO INFINITO”

Attraversata da profonde lacerazioni culturali ed economiche e percorsa da forti spinte separatiste che ne mettono in crisi l’unità, l’Indonesia, il maggior arcipelago del mondo, spicca per la sua complessa eterogeneità.

di Emilio Asti 

Formata da più di 17 mila isole, sparse su una superficie di 8 milioni di kmq, di cui solo 6 mila abitate, l’Indonesia, abitata da oltre 300 gruppi etnici e quarto paese al mondo per popolazione, nasconde una realtà per molti aspetti sorprendente. Per secoli questo enorme arcipelago, situato fra l’Oceano Indiano e il Pacifico, a cavallo dell’Equatore, area di transizione fra la regione indocinese e quella australiana e famoso sin dall’antichità per il commercio delle spezie, ha visto il sorgere di fiorenti civiltà, che controllavano il traffico commerciale dalla Cina all’India. Sin dal 1945, quando venne proclamata l’indipendenza, che divenne effettiva cinque anni dopo con il ritiro delle forze olandesi, la repubblica indonesiana ha una tradizione di governo laico. Sebbene l’Indonesia sia il più popoloso paese islamico, l’Islam, praticato da quasi il 90% della popolazione, non è religione di stato e si distingue per la sua tolleranza nei confronti delle altre fedi presenti nel paese. In alcune aree, non toccate dalla modernità, sopravvivono antichi culti animistici, praticati da tribù di agricoltori e guerrieri, depositari di antiche culture tribali, che sono rimaste completamente isolate sino quasi alla metà del secolo scorso. 

Il carattere laico dello stato indonesiano viene spesso contestato da gruppi fondamentalisti, i quali si battono per la creazione di uno stato islamico e si fanno veicolo di protesta contro il dilagare dell’immoralità e la perdita dei valori tradizionali, da loro attribuiti alla modernizzazione e all’assimilazione della cultura occidentale. In questi ultimi anni il paese è stato vittima di gravi attentati terroristici, attribuiti a movimenti islamici radicali, i quali però non godono dell’appoggio della società, da tempo abituata al pluralismo religioso. Primo presidente fu il generale Sukarno, il cui mito sopravvive tuttora, uno dei grandi sostenitori del Movimento dei Paesi Non Allineati, che ospitò a Bandung l’importante conferenza afro-asiatica del 1955. Attraverso una politica di stampo nazionalista, molto critica verso l’Occidente, Sukarno, che aveva ricevuto aiuti dall’URSS e non nascondeva le sue simpatie per la Cina comunista, era intenzionato ad accrescere con ogni mezzo la grandezza della sua patria, e ciò lo portò ad un confronto militare con la Malesia. Nella vita politica indonesiana, costantemente segnata da corruzione e nepotismo, l’esercito ha sempre svolto un ruolo molto importante, arrivando a controllare anche diversi settori dell’economia. Sukarno venne poi rimosso da un colpo di stato militare nel 1965, a cui seguì, dopo un tentativo di presa del potere da parte del partito comunista, una violenta repressione scatenata dal generale Suharto, la quale causò il massacro di oltre mezzo milione di persone. Il crollo del regime di Suharto nel 1998 aprì la strada alla democratizzazione, che, sebbene punteggiata da ostacoli e forti polemiche, appare ormai un fenomeno irreversibile, nonostante le elezioni siano state spesso segnate dalla violenza, puntualmente stroncata dall’intervento dell’esercito. Il risveglio di antiche conflittualità ha spesso provocato esplosioni incontrollate di violenza, con chiese e moschee date alle fiamme, case e negozi danneggiati gravemente e migliaia di sfollati. Tuttora anche semplici dimostrazioni di malcontento, contrastate spesso con la forza, degenerano facilmente in scontri armati. La storia dell’Indonesia indipendente s’identifica in gran parte con lo sforzo del governo per aggregare in un unico stato popolazioni eterogenee ed assicurare al paese una certa stabilità politica. Non bisogna dimenticare che prima della colonizzazione olandese l’Indonesia era composta da un insieme di regni e sultanati indipendenti. Le spinte centrifughe hanno sempre caratterizzato la storia di questo paese e diversi fattori tuttora ne condizionano la sopravvivenza come stato unitario. Rimane emblematica la drammatica vicenda di Timor Orientale, colonia portoghese occupata dall’Indonesia nel 1976, che dopo una dura repressione ed un lungo e sanguinoso conflitto che ha causato circa 200 mila vittime, riuscì, con l’appoggio dell’ONU, ad ottenere l’indipendenza nel 2002. Nel tentativo di costruire un’identità nazionale, in un paese dalla geografia così vasta e complessa, venne forgiato il motto “Bhinneka Tunggal Ika”, posto anche sullo stemma nazionale, che significa unità nella diversità, sulla base di un’ideologia etico-nazionalista basata su valori universali e simboleggiata nei cinque punti del codice nazionale chiamato “Pancasila”, uno dei quali è la fede in un unico Dio. Gli sforzi del governo diretti a forgiare un sentimento di unità nazionale si scontravano con diversi fattori, aggravati anche dalla stessa configurazione geografica del paese, che ha ostacolato la formazione di una coscienza nazionale. Al di sopra delle differenze culturali ed economiche un fattore agglutinante è rappresentato dalla lingua, il Bahasa Indonesia, voluta dalla classe dirigente come idioma ufficiale, la cui adozione ha fornito un notevole impulso all’unificazione delle popolazioni di questo arcipelago. Oltre alla lingua ufficiale si parlano oltre 200 tra lingue e dialetti locali, alcune delle quali corrono il rischio d’estinzione. Il gruppo etnico più consistente, quello giavanese, ha sempre dominato politicamente il paese e tuttora mantiene un ruolo predominante nella vita sociale e culturale, causando il risentimento delle altre etnie, le quali si sentono tagliate fuori dallo sviluppo economico ed imputano al governo centrale la volontà di mantenere unito il paese solo con la forza. Per decisione del governo diversi milioni di persone vennero trasferite dalle zone più popolate verso aree periferiche, operazione che nelle intenzioni dei dirigenti sarebbe servita a garantire uno sviluppo omogeneo del paese, ma che invece contribuì ad accrescere i contrasti etnici. In parecchie occasioni l’intreccio fra questioni etniche e religiose viene a complicare un quadro già di per sé torbido, aggravato dal ricordo di un passato turbolento. Diversi scontri hanno opposto i Dayak, abitanti del Kalimantan, la più vasta regione indonesiana, in maggioranza cristiani, agli immigrati provenienti da Madura, di religione islamica. La violenza non ha risparmiato neppure la minoranza cinese, che, benché esigua, detiene un notevole potere economico. In alcune zone, nelle quali i nativi hanno subito una sistematica espropriazione delle proprie risorse, accompagnata da gravi violazioni dei diritti umani, attribuite ai militari e rimaste impunite, la tensione ha raggiunto un livello molto alto. Vaste aree naturali minacciate dallo sfruttamento abusivo e dalla deforestazione, sono divenute campo d’azione di compagnie minerarie avide di profitti, le quali hanno causato gravi danni all’ambiente, cacciando gli abitanti dalle loro terre. Gli interessi del governo, che non ha saputo o voluto avviare a soluzione le questioni etniche, cercando di mantenere con ogni mezzo l’unità nazionale, ed il cui rifiuto di negoziare ha spesso favorito il ricorso alla violenza, entrano spesso in conflitto con le esigenze di autonomia di diversi gruppi etnici. Nella zona di Aceh, situata nella parte settentrionale di Sumatra, tuttora teatro di scontri fra l’esercito e i guerriglieri, la tensione rimane alta e in questo clima di violenta intolleranza molti furono costretti ad abbandonare le loro case. Particolare attenzione merita la situazione dell’Irian Jaya, la parte occidentale della Nuova Guinea, territorio sotto il controllo dell’Indonesia dal 1963, costantemente afflitto da disordini per il mancato riconoscimento della propria sovranità. In questa regione, geograficamente parte dell’Oceania, che custodisce una delle aree minerarie più ricche del mondo e culture tribali, che affondano le radici in un lontano passato e rimaste immutate sino ad oggi, è attivo un movimento secessionista, lo “Organisasi Papua Merdeka”, che tra alterne vicende, continua a battersi per l’indipendenza. In quest’area, che conserva luoghi ancora inviolati, il governo centrale aveva espropriato totalmente le risorse minerarie, ignorando completamente i diritti degli abitanti nativi i quali conservano uno stretto legame con il suolo patrio, ma che, considerati primitivi ed incapaci di progredire, sono costretti continuamente a subire le violenze dell’esercito, che cerca di stroncare ogni forma di resistenza. Nel Kalimantan la lotta dei Dayak da lungo tempo vittime d’ingiustizie per ciò che riguarda la ripartizione dei proventi derivati dallo sfruttamento delle risorse del loro territorio, ha assunto forme diverse, più o meno violente, volte a recuperare il controllo sulle proprie risorse naturali. Sebbene generalmente molti tendono a sottovalutarne l’importanza in termini geopolitici, il ruolo dell’Indonesia, membro dell’ASEAN, all’interno della quale occupa una posizione importante, e dell’APEC, e dall’Agosto di quest’anno tornata a far parte dell’OPEC, grazie anche alla sua posizione strategica fra l’Asia continentale e l’Australia, pare destinato a crescere. Considerata una delle “Nuove tigri asiatiche”, ripresasi dalla grave crisi finanziaria del 1997, che aveva colpito diverse nazioni dell’Asia Orientale, cerca di entrare a pieno titolo nel novero dei paesi industrializzati; per le sue ricche riserve minerarie, oltre a giacimenti petroliferi e di gas naturale ha attirato tanti investimenti stranieri. Nonostante sia stata colpita varie volte da disastri naturali, che hanno causato molte vittime ed ingenti danni, l’Indonesia, la cui industria turistica può contare su una straordinaria varietà di habitat naturali, oltreché su un ricco e variegato patrimonio culturale, rimane una meta turistica molto ambita e cerca di attrarre un numero sempre crescente di visitatori. Negli ultimi anni il prodotto interno lordo è cresciuto notevolmente, sebbene fra una zona e l’altra sussistano grosse differenze di sviluppo e la forte crescita demografica, soprattutto nelle zone rurali, non accenni a diminuire. Parecchi sono riusciti ad uscire dallo stato d’indigenza, anche se il progresso non ha raggiunto parecchie zone nelle quali le condizioni di vita e di lavoro rimangono ancora precarie. La durata media della vita è cresciuta, ma in alcune aree il tasso di mortalità infantile rimane alto. Il processo di urbanizzazione in continua crescita ha creato numerosi problemi, contribuendo alla disgregazione familiare e alla perdita dei legami sociali. Le città, cresciute rapidamente ed in modo caotico, rappresentano un miraggio per molti abitanti delle zone rurali che sognano di trovarvi una sistemazione migliore. Un’altra piaga, oltre all’aumento del consumo di droghe, è rappresentata dall’estesa diffusione dell’AIDS, per prevenire il quale sono state attuate, purtroppo con scarso successo, varie iniziative. Notevoli sforzi sono stati compiuti per incrementare l’istruzione, anche quella delle donne, a cui la costituzione riconosce parità di diritti, alcune delle quali occupano posizioni importanti in svariati ambiti. Rispetto ad alcuni anni addietro la società nel complesso appare più aperta alla modernità ed a nuove idee, ma i valori tradizionali sono ancora sentiti dalla maggior parte delle persone. La sopravvivenza dell’indonesia come nazione unitaria dipende dalla disponibilità del governo centrale di prendere in seria considerazione le istanze di tutti i gruppi etnici, i quali, a loro volta, devono abbandonare posizioni estreme che rischiano solo di aggravare i loro problemi. Ciò dipenderà soprattutto dalla capacità dello stato di rispondere efficacemente alle esigenze economiche e sociali delle varie popolazioni, sforzandosi di intraprendere un dialogo sincero con le forze che si battono per l’indipendenza. Sono molte le speranze e le aspettative in tal senso, anche se non si possono ignorare le numerose difficoltà. La costruzione della nazione indonesiana è un processo tuttora aperto, che richiede il contributo di tutti i settori della società, al di là delle differenze religiose ed etniche. L’Indonesia può divenire un esempio di convivenza pacifica fra popoli differenti, capace di armonizzare tradizioni ed innovazione attraverso la valorizzazione delle diversità per dar vita a nuove esperienze di convivenza e di relazioni costruttive. Diversi passi in questa direzione sono stati compiuti, ma occorrono ancora molti sforzi per portare a soluzione le numerose questioni ancora aperte. Un’autentica pacificazione nazionale non può prescindere da interventi finalizzati a garantire i diritti fondamentali e condizioni dignitose per tutti, portando avanti un’azione di rinnovamento ad ogni livello. L’Indonesia pare ora incamminata verso un nuovo modello organizzativo, la cui coesione può e deve essere mantenuta attraverso la creazione di nuovi legami che possono superare le vecchie logiche di contrapposizione e conferire al paese una rinnovata identità in grado di rispondere efficacemente alle sfide future. A tal fine sono necessarie riforme politiche ed economiche accompagnate dal rispetto delle diversità culturali, oltreché da iniziative per la tutela dell’ambiente naturale. Appare inoltre indispensabile per garantire la stabilità di questo grande e multiforme paese la cooperazione tra i leader religiosi, alcuni dei quali già impegnati in questo senso.

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