27 marzo 2014

Il futuro parlerà cinese?

di Carlo Alberto Tabacchi

L'uso della lingua cinese diventa uno strumento di soft power per accrescere l'attrattiva della Terra di Mezzo nell'arena internazionale.
"Se parli a qualcuno in una lingua che comprende, parli alla sua testa; se gli parli nella sua lingua, parli al suo cuore." (Nelson Mandela)
E' innegabile come in un contesto globalizzato - in cui spesso è il soft power ad averla vinta sull'hard power - le lingue assumono un'importanza strategica dal punto di vista geopolitico.
Che fare con la Cina, potenza in ascesa di indiscutibile importanza planetaria, paese multilinguistico per eccellenza? La lingua cinese, parlata da oltre un miliardo e trecentocinquanta milioni di persone, appartiene alla famiglia sino-tibetana; è piuttosto complesso definire cosa si intenda con "lingua cinese", in quanto questo termine può assumere diverse accezioni a seconda di molteplici variabili: storiche, culturali, antropologiche e geografiche. Il termine che indica la lingua ufficiale della Repubblica popolare cinese è putonghua (letteralmente lingua comune o mandarino standard, riguardo la lingua parlata), identificato anche con il termine hanyu (letteralmente lingua degli Han, l'etnia maggioritaria, riguardo la lingua scritta).
La geografia linguistica della Cina contemporanea comprende la lingua ufficiale ed incorpora anche sette aree dialettali: mentre al nord i dialetti sono omogenei, nel sud la frammentazione è totale. Questi i sette gruppi dialettali principali:
Guan/Mandarin
Wu - parlato nell'area di Shanghai
Yue  - cantonese
Min
Hakka
Xiang
Gan.
Il cantonese può essere considerato il "rivale" del mandarino, in quanto parlato ad Hong Kong, ex colonia di grande prestigio internazionale. E' difficile definire lingua e dialetto, in quanto i dialetti sono classificabili come lingua a sé stanti, ma è anche vero che la differenziazione tra lingua e dialetto non è definibile solo in base a parametri linguistici, tenendo in considerazione variabili culturali e sociali.
Quindi, il cinese sta diventando uno strumento fondamentale, efficace e capace di costituire solidi canali di comunicazione interculturale. Per promuovere lo studio del mandarino oltre confine, il Ministero dell'istruzione cinese ha creato gli istituti Confucio, che stanno fiorendo in tutto il mondo: se ne contano più di 300; il primo fu aperto nel 2004 a Seoul; in Italia, nel giro degli ultimi anni, sono stati inaugurati diversi nuovi centri ed oggi si trovano a Napoli, Roma, Venezia, Milano, Bologna, Macerata, Torino, Padova, Pisa.
Compito di queste istituzioni è quello di promuovere ovviamente lingua e cultura cinese, interagendo con gli ambienti accademici ma anche con centri di ricerca e realtà locali. L'istituto Confucio si propone come motore internazionale per la creazione di una società armoniosa, pronta a scavalcare i confini nazionali per portare un po' del paese in ogni angolo del pianeta; sono pensati per gli stranieri e sostenuti dal governo; le borse di studio portano nelle maggiori città del Dragone migliaia e migliaia di studenti provenienti da ogni parte del globo: chi ha la possibilità di studiare in Cina e poi tornare in patria porta necessariamente con sé la forza di un'esperienza essenziale di vita.
I cinesi, che vantano 5000 anni di civiltà, sono maestri nell'uso del soft power, strumento intangibile di strategia geopolitica: la penetrazione economica e commerciale, infatti, passa agilmente, come già detto, attraverso la diffusione linguistica e culturale espandendosi in primis verso i paesi dell'area circostante. Le comunità cinesi annidate nelle metropoli occidentali si stanno sempre più integrando con il contesto locale e la loro presenza continua a influenzare le comunità indigene: l'iniziale diffidenza e il clash of civilizations che ha caratterizzato i primi rapporti tra loro stanno gradualmente diminuendo per lasciare spazio a progetti condivisi, curiosità, partecipazione reciproca a momenti culturali significativi, associazioni che sostengono l'integrazione dando voce alle comunità di Chinatown.
Nonostante il mandarino rivesta una sua portata internazionale - in quanto lingua ufficiale delle Nazioni Unite - non significa che sostituirà l'uso dell'inglese come lingua franca della comunicazione internazionale: la complessità del mandarino e la sua impostazione sintattica, morfologica e fonetica lo rendono distante dagli idiomi occidentali e difficile da digerire. Tale fatto, tuttavia, non impedirà al governo di Pechino di imporre i suoi canoni, i suoi valori, i suoi criteri: l'Occidente del prossimo futuro sarà costretto a dovere "pensare alla cinese", passando necessariamente da un confronto linguistico.

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