5 luglio 2013

Asia Orientale tra ascesa Cinese e declino Americano

Alcuni dei conflitti marittimi in cui la Cina è coinvolta sembrano essere dettati, più che da un senso di territorialità, dal desiderio di assicurare gli approvvigionamenti energetici essenziali per il suo forte sviluppo

di Carlo Alberto Tabacchi

Mentre la Cina cresce ad un ritmo accelerato gli Stati Uniti hanno un'espansione media per un paese avanzato, ma non comparabile con quello cinese. Per comprendere quanto tempo potrebbe essere necessario prima che il PIL cinese eguagli o superi quello americano, il Fondo

monetario internazionale prevede che nel 2016 il PIL asiatico a parità di potere di acquisto ammonterà a 18.390 mld di dollari, a fronte di un PIL statunitense di 18.710 mld. Nel 2017 avverrà la transizione: il PIL cinese a parità di potere di acquisto raggiungerà i 20.340 mld di dollari, quello americano si attesterà sui 19.710 mld. Permangono obiettive difficoltà di stima dei dati futuri: bisogna ricordare che i modelli economici, per quanto complessi, non possono prevedere se e quando avverranno shock esogeni.
Regime autoritario a partito unico, Pechino potrebbe cadere vittima delle sue stesse contraddizioni e subire rallentamenti anche bruschi, a causa delle tensioni innescate dal suo impetuoso ed ineguale processo di modernizzazione.
La crescita economica influenzerà fortemente le relazioni tra Pechino, sfidante in ascesa, e l' egemone americano: come si sa, da qui ai prossimi 10 anni, gli equilibri mondiali si sposteranno ulteriormente dall'Europa all'Asia, dall'Occidente all'Estremo oriente. L'espansione della Cina è dunque inevitabile, tanto come gigante economico-commerciale quanto come potenza militare: gli osservatori internazionali concordano nel ritenere che tra gli obiettivi cinesi di lungo periodo vi sia certamente quello di giungere ad un più profondo influsso in Asia, con un atteggiamento talvolta energico nei confronti dei suoi vicini e con il diritto storico di dominare le proprie periferie.
Alcuni problemi restano aperti nella regione. La disputa sulle Spratley Islands e sulle Parcels Islands (da tempo contese con il Vietnam), un gruppo di oltre 700 tra atolli, isole e scogli che rivestono un'importanza palese sia per le risorse naturali del sottosuolo che per quelle ittiche sia per le installazioni militari, oltreché per la sovranità del mare territoriale e il controllo delle rotte. In secondo luogo, la duplice questione di Taiwan e Corea, che coinvolge anche Washington; se Pechino si è ultimamente riavvicinata a Taipei, la divisione della penisola coreana resta un problema aperto ed imprevedibile, soprattutto in relazione al programma nucleare di Pyongyang; su questo ultimo delicato aspetto, sia Usa che Cina non hanno alcun interesse ad una imponderabile escalation che li chiamerebbe, volenti o nolenti, ad intervenire direttamente. Né l'una né l'altra potenza sembrano avere, neppure lontanamente, l'intenzione di risolvere la disputa mediante l'utilizzo delle armi: la sfida resta sul piano diplomatico. In terzo luogo, lo sviluppo del Vietnam che nutre ambizioni regionali (continua ad esercitare un grande peso su Laos e Cambogia) e sentimenti anti-cinesi. Infine, la questione dei numerosi fenomeni di insurrezione — come minoranze islamiche e rifugiati — (in Tailandia, Cambogia e Myanmar) che potranno incidere sulla stabilità della regione.
Il Mar della Cina meridionale, come detto ricco di giacimenti di idrocarburi e di risorse ittiche, solcato da numerose petroliere in un tratto altamente congestionato, è e sarà un sensibile crocevia in cui si scontrano ragguardevoli interessi di Cina e Stati Uniti ed ovviamente dei paesi del Sud-est asiatico, come Giappone, Corea, Filippine, Taiwan, Vietnam e Malesia. Un'escalation iniziata all'inizio del 2012 che testimonia la nuova politica cinese di "affermazione reattiva", consistente nel cogliere ogni minimo incidente alle frontiere come un'occasione per procedere ad una dimostrazione di forza e tentare di modificare in proprio favore la statu quo territoriale.
Anche il partito comunista cinese non è più quello di prima: al suo interno è in atto uno scontro tra varie fazioni, che potrebbe accentuarsi nel prossimo futuro. Il Pcc fa ricorso al nazionalismo e conseguentemente ad una politica estera alquanto assertiva. Da un punto di vista internazionale, Pechino ha adottato la cosiddetta "strategia della collana di perle", costituendo una lunga catena di basi commerciali (in pratica aeronavali): Golfo del Bengala, Bangladesh, Pakistan (con il grande e strategico porto di Gwadar sul Mar Arabico, da cui Pechino potrebbe intervenire nello stretto di Hormuz), Sri Lanka per raggiungere infine le Maldive (base avanzata della Marina di Pechino per l'azione antipirateria sulle coste somale).
In conclusione, l'aumento dei nazionalismi, la corsa agli armamenti, l'assenza di una leadership regionale e il carattere precario degli accordi politici contribuiscono ad aggravare il rischio di una spirale bellica nel Mar della Cina: un rischio ancora più grave in quanto le istituzioni, i meccanismi e i processi capaci di frenare questo inasprimento si sono notevolmente indeboliti negli ultimi anni.
Nel frattempo, l'Unione Europea resta assente in tale prioritaria e dinamica area, cosi come l'Italia avviluppata purtroppo in una proiezione domestica.

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