14 maggio 2013

Jetsun Pema: “UNA SPERANZA PER IL TIBET”

Nel 2009 avevamo avuto l'opportunità di incontrare la sorella del Dalai Lama e avevamo pubblicato la sua biografia e intervista raccolte da Elena Chirulli. Desideriamo pubblicarla on-line perché molto interessante e attuale.

Jetsun Pema, sorella del XIV Dalai Lama, dirige da diversi anni il Tibetan Children’s Village (TCV). Nata a Lhasa, la capitale del Tibet, si è trasferita in India nel 1950.

Ha studiato prima al Convento di St. Joseph a Kalimpong e poi al Convento di Loreto a Darjeeling, in Inghilterra. Si è laureata a Cambridge nel 1960. A partire dall’anno 1964 è tornata in India chiamata dal Dalai Lama alla direzione del Tibet Children’s Village (TCV), il Villaggio dei Bambini Tibetani di Dharamsala di cui è ancora responsabile. Jetsun Pema svolge un ruolo molto attivo nel suo Paese e si impegna da oltre quarant’anni nell’educazione dei bambini tibetani in esilio in India.
È lei la forza motrice del Villaggio ed è lei la “madre” di centinaia di migliaia di bimbi tibetani poveri ed orfani.
Da loro è stata soprannominata “Ama La” (Madre Rispettata), per la sua instancabile dedizione nell’offrire loro amore, educazione e calore familiare.

Le tappe significative della sua biografia non si concludono qui. Oltre a impegnarsi nell’organizzazione dei centri tibetani per i ragazzi profughi e spesso orfani, il Congresso della Gioventù Tibetana, nel 1970, la elegge Vice Presidente durante la Prima Riunione Generale.
Successivamente nel 1984 riceve la nomina di Consigliere nella Prima Riunione Generale dell’Associazione delle Donne Tibetane. Di notevole rilevanza è l’anno 1980, quando su invito del Dalai Lama, Jetsun Pema visita per un periodo di tre mesi, la Regione Autonoma del Tibet a capo della Delegazione “Third Fact Finding”.
Nel maggio 1990 Sua Santità convoca uno speciale Congresso del Popolo Tibetano in esilio a Dharamsala e le elezioni per i ministri (Kalon). Tra questi viene nominata Jetsun Pema che diventa così la prima donna Kalon nella storia del Tibet.
Successivamente, nel 1991, l’Assemblea dei Deputati del Popolo Tibetano la elegge Ministro del Dipartimento Tibetano dell’Istruzione. Quattro anni dopo, nel 1995 le viene attribuito il titolo di “Madre del Tibet” dall’Assemblea Nazionale Tibetana. L’anno seguente pubblica il libro “Tibet: la mia storia”, testo autobiografico, reperibile in dieci lingue diverse.
Il 10 novembre 2009, si è svolta a Padova, presso l’Aula Magna dell’Università di Padova, una conferenza che ha visto come protagonista Jetsun Pema. Il tema della serata è stato: “Educare all’esempio: l’etica della pace”. L’incontro rientra nelle celebrazioni delle Giornate della Pace e della Nonviolenza che il Comune di Padova promuove da alcuni anni. L’Università e i cittadini padovani hanno avuto così, la possibilità di conoscere dal vivo una persona che, quotidianamente si impegna a prendersi cura delle necessità fisiche mentali e spirituali dei piccoli profughi tibetani attraverso il Tibetan Children’s Village, ma anche a diffondere un messaggio di speranza che miri a rendere un giorno il Tibet libero.
L’evento è stato organizzato dal Comune di Padova in collaborazione con il Centro Buddista “Tara Cittamani”.
Al saluto del Presidente del Centro Filippo Scianna, ha fatto seguito il discorso del pro-rettore dell’Università di Padova Francesco Gnesotto e l’intervento della consigliera comunale con delega alle Politiche per la Pace e i Diritti Umani Anna Milvia Boselli. La serata si è rivelata di notevole rilievo per i temi trattati ed ha fatto emergere come nei conflitti, nelle guerre, nella violenza, alla fine le vittime siano principalmente le donne e i bambini. Si è evidenziato quanto sia importante sviluppare un’etica che miri alla solidarietà e alla pacifica convivenza tra i popoli, con l’aiuto delle istituzioni nazionali, internazionali ma ancor prima, partendo da noi stessi. Per estirpare i conflitti è necessario l’impegno di tutti, favorendo una educazione per le nuove generazioni che cerchi di rendere un mondo più solidale e sensibile ai problemi sociali. Il giorno seguente ci è stato permesso un incontro privato con la sig.ra Pema che ci ha concesso un’ intervista. Durante l’incontro l’Universal Peace Federation ha conferito alla signora Pema la nomina di Ambasciatrice di Pace.

Quanto del suo bagaglio culturale, ricco di esperienze derivanti dai suoi studi all’estero riesce a trasmettere nell’educazione dei bambini del TCV? Inoltre, è importante per lei avere una mentalità aperta?
“Siccome non ero una professionista, per educare i ragazzi mi sono sempre rivolta ad esperti, per individuare ciò che potesse essere utile in un contesto come il TCV. Ho fatto riferimento ad educatori come Rousseau e Maria Montessori che sono stati molto importanti per noi,soprattutto per organizza- re la scuola primaria e la scuola materna. Ciò che mi è stato molto d’aiuto, è stato chiedere il sostegno ai preti cattolici, soprattutto ai gesuiti che hanno questa grande tradizione di insegnamento. Loro stessi, per impartire una buona educazione ai ragazzi, devono studiare per molti anni.
Naturalmente, la guida più impor- tante di tutte,è stata per noi Sua Santità il Dalai Lama,che ci ha sempre dato un notevole supporto in tutto questo. Egli ci ha sempre fatto considerare i bambini come i semi futuri del Tibet. I bambini sono la nostra ricchezza più importante”.
È vero che presso il vostro centro vengono ospitati, per studiare, anche i figli degli immigrati?
Dalla fine del ’79 dal Tibet arrivano centinaia di bambini ogni anno, una media di settecentomila ragazzini all’anno che vengono proprio fatti passare oltre il confine attraverso il Nepal e mandati a studiare qui. Anche ieri, alla conferenza, facevo riferimento al fatto che in Cina i bambini vengono considerati come persone di seconda classe. Quindi, l’unica possibilità che i genitori possono dare ai propri figli è quella di mandarli all’estero, in India per studiare. Purtroppo dall’anno scorso il flusso è molto diminuito perché, a causa delle olimpiadi, le condizioni imposte dal governo cinese per i tibetani si sono ulteriormente incattivite.
Attualmente riescono a passare il confine solo un centinaio di bambini”.
In riferimento ai rapporti del Tibet con il governo cinese, i bambini seppur piccoli, come percepiscono e vivono la situazione. È difficile non avere risentimento, come riuscite a gestire i loro stati d’animo?
“Dal Tibet arrivano ragazzi di tutte le età, dai cinque anni ai diciassette - diciotto. Ognuno di loro ha il suo proprio vissuto e sono tutti consapevoli di essere considerati, in Cina, cittadini di secondo grado. Molti hanno visto violenza. Presso il nostro centro, abbiamo avuto una bambina che ha visto la sua nonna picchiata fino alla morte dai soldati cinesi. Un altro bambino invece, ha visto il padre morire fucilato di fronte a lui. Questi ragazzi arrivano con questo tipo di esperienze, però noi chiediamo loro dimenticare il passato e di vivere nel presente di focalizzare la loro attenzione su quello che vivono adesso. Questo modo di porsi nei confronti della vita deriva dalla nostra tradizione, che trova le basi nella nostra religione, il buddismo. Questi ragazzi che giungono presso il nostro centro, portano con loro il loro vissuto, ma la cosa più importante è che quando arrivano, vedono moltissimi bambini che hanno vissuto le stesso loro tristi esperienze.
Questo per loro è un conforto, non si sentono più soli. Nel momento in cui arrivano, lo staff si mette a loro completa disposizione, curandoli, rassicurandoli, sfamandoli e circondandoli di affetto. Dall’insegnamento di Sua Santità è stato creato questo villaggio perché ci si possa dedicare completamente alla cura dei ragazzi e dare loro un futuro. Desideriamo che abbiano la possibilità di studiare e crescere attraverso un’educazione che in Cina viene loro negata. Anche questo è molto d’aiuto ai ragazzi e li rende più consapevoli.
Il programma di studio cerca di tenere i bambini molto occupati. Hanno infatti la giornata piena e pochissimo tempo per dar spazio al risentimento e ai tristi ricordi. Il problema più grande è per i ragazzi di sedici - diciassette anni, che arrivano con questa situazione molto pesante alle spalle. Questi ultimi vengono tenuti separati dagli altri ragazzi. In loro c’è molta aggressività ed è più difficile, rispetto ai più piccoli, girare pagina e iniziare una nuova vita. Questo per esempio si vede quando giocano a basket, distruggono, infatti, l’attrezzatura nel giro di tre giorni. Mentre giocano a questo sport, si sfogano e con rabbia rompono tutti i palloni. All’inizio degli insegnanti hanno pensato di sospendere l’attività sportiva, ma ho chiesto loro di dare ai ragazzi la possibilità di sfogare la tensione e il risentimento accumulato nella loro vita attraverso il gioco piuttosto che farlo sedimentare nel loro animo o farlo esplodere in altre situazioni. Il nostro obiettivo è di farli sentire a casa e di dimostrare che ci stiamo prendendo cura di loro.
La cosa più importante è ottenere la loro fiducia e questo richiede molto tempo, impegno e compassione.
A parole sembra semplice, nella realtà invece è una cosa difficilissima da ottenere. I teenagers sono ragazzi di una età difficile e soprattutto sono tanti, non si parla di dieci o venti giovani, bensì di centinaia di ragazzi. Loro stessi si sono trovati molto bene, poiché il direttore della scuola era un monaco, abituato quindi ad avere pazienza. Questo ha fatto la differenza. La cosa più importante è stato far comprendere loro come ogni bambino, ragazzo fosse un individuo particolare e come lo staff si sarebbe preso cura di ognuno in egual maniera. Tutti hanno problemi diversi, c’è quello meno bravo a scuola, il malato immaginario, ecc… Noi dovevamo e dobbiamo tuttora seguire tutti. Se per esempio qualcuno accusa un dolore e vuole andare all’ospedale, lo si accompagna, ma nel caso i medici non riscontrino alcun problema ed il ragazzo si continui a lamentare è importante che lo si continui a seguire e “curare” perché è una sua implicita richiesta di attenzione, comprensione e amore. La nostra scuola esiste da più di venticinque anni. All’inizio è stato difficile perché avevamo bisogno di aiuti. Fortunatamente sono giunti degli aiuti umanitari da altri paesi e ciò ha significato un notevole aiuto dal punto di vista fisico per ogni ragazzo. Questa è una buona base di partenza per rendere una persona felice. Lo staff poi si è dovuto occupare degli altri bisogni. Inizialmente infatti diversi di questi teenagers che giungevano erano abituati a fumare in Cina. All’inizio non abbiamo posto un divieto ma con il nostro continuo esempio siamo riusciti ad eliminare questa cattiva abitudine. Ora nessuno di loro fuma più.
Finora tredicimila ragazzi sono usciti dalla Cina per giungere nel nostro Centro. I ragazzi hanno un programma individuale di studio. Se qualcuno non si adatta al tipo di studi, oppure vuole tornare a casa perché ha nostalgia dei suoi genitori, noi gli paghiamo il viaggio di ritorno in Tibet, gli offriamo le cose minime necessarie (vestiti, ecc..) ed anche una radio perché desideriamo che possano mantenere il contatto con il mondo attraverso i notiziari. Solo quattromila hanno voluto tornare indietro. All’inizio i cinesi chiudevano un occhio e lasciavano uscire i bambini tranquillamente. Non pensavano che saremmo riusciti a prenderci cura dei bambini.
Poi però si sono resi conto che il nostro impegno riusciva a garantire un’educazione migliore per i piccoli profughi e così hanno chiuso le frontiere.
Gli stranieri notano tutto questo. Un americano, per esempio, è arrivato al nostro centro, dopo aver fatto un viaggio in Tibet. Ha raccontato che, viaggiando in molte parti del Tibet, gli è capitato di incontrare molti di questi quattromila ragazzi. Si era reso conto della differenza di questi ragazzi che avevano ricevuto una educazione presso il CTV e di chi invece non l’aveva ricevuta. Perciò, quando è giunto da noi, ha voluto sottolineare che avevamo fatto un buon lavoro.
Parlando della sua esperienza come primo ministro donna, quanto è stato importante nella storia del Tibet questo avvenimento? Cos’è che ha fatto la differenza?
Sono stata la prima donna nella storia del Tibet a diventare ministro. Questo è stato un grosso traguardo raggiunto attraverso le regole democratiche stabilite da Sua Santità, nel primo governo in esilio, molto diverse da quelle che il Tibet aveva un tempo.
Questo perciò, è stato un buon punto di arrivo dal punto di vista politico. Tuttavia, non mi è piaciuto essere un ministro, perché sono una donna che ama lavorare in prima linea, sul fronte. Il campo politico invece, non mi ha mai interessato più di tanto. Dopo di me ci sono state altre tre donne che sono state elette. Io sono stata ministro per tre anni durante i quali per ben quattro volte ho chiesto a Sua Santità di essere esonerata da quel compito. Solo l’ultima volta la mia richiesta è stata accolta.
La scuola che fascia di età comprende?
Non c’è una età fissa, perché ogni ragazzo che arriva ha età ed esigenze diverse. Ci sono dei ragazzi che arrivano e in tre anni sono capaci di seguire un corso che in realtà sarebbe di nove anni. Così facendo quindi finiscono nell’età giusta. Altri ragazzi che arrivano in un età in cui non hanno mai studiato prima, hanno bisogno quindi di più di nove anni per conseguire il diploma. Può succedere che debbano proseguire un percorso di studio fino all’età di ventidue - ventitré anni. Tutto quindi dipende dalle esigenze di ciascun ragazzo.
Quanto conta avere una persona accanto, in questo caso suo marito, che coltivi i suoi stessi ideali? Secondo lei, quanto conta l’armonia nella coppia?
Mio marito attualmente è ministro del governo tibetano in esilio. La causa tibetana è al primo posto per entrambi. Quando si è uniti, i problemi che possono sorgere da un matrimonio assumono un’importanza minore. Mio marito si occupa di politica, mentre io mi occupo di bambini. È importante per noi, perciò vivere per una causa più grande.
Il nostro pensiero riguarda un concetto di famiglia allargata, più ampia. Abbiamo questa grande fortuna, perché tutti i tibetani considerano Sua Santità come il capo della loro famiglia. Questo quindi ci aiuta molto ad essere uniti.
Che messaggio darebbe ai giovani?
Rifacendomi alle parole che Sua Santità ha rilasciato in un’intervista: il futuro siete voi giovani. Voi avete la responsabilità di migliorare la realtà, il mondo è nelle vostre mani.

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