15 marzo 2013

Birmania: quando il business fa socchiudere gli occhi

Le aperture incoraggiano i rapporti d’affari internazionali, ma sui diritti c’è ancora molto da fare

Il nuovo Presidente birmano, Thein Sein, chiamato dai media occidentali il «Signor Pulito», si è conquistato spazi e consensi nella politica internazionale dopo le (presunte) riforme democratiche portate avanti dal governo del Paese in campo politico e sociale, e dopo l’entrata in parlamento della leader dell’opposizione, il Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.

Gli Stati Uniti, e di conseguenza l’Unione Europea, hanno allentato le sanzioni economiche e commerciali alla Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare nel 1989, aprendo le porte al commercio con la nazione che molti indicano come la possibile nuova «tigre asiatica».
La Birmania, che fino ad oggi ha intrattenuto rapporti quasi esclusivi con la Cina – basti pensare che dal 2005 al 2011 gli investimenti cinesi in Birmania sono arrivati a 32 miliardi di dollari – è infatti un Paese che offre molte risorse naturali: petrolio, gas e legname in primis, ma non solo. Incuneata tra le potenze dell’India e della Cina, ha un potenziale di mercato altissimo e una manodopera giovanile a bassissimo costo.

Non a caso Barack Obama, in occasione del vertice dell’Asia-Pacific Economic Cooperation svoltosi lo scorso anno a Honolulu, dichiarò che «la regione Asia-Pacifico è assolutamente importante per la crescita economica degli Stati Uniti».

Proprio in questi giorni Thein Sein è stato impegnato in un tour nel Vecchio Continente, che si è concluso ieri in Italia, nel corso del quale ha incontrato i massimi funzionari politici dell’Unione Europea e ha tenuto dialoghi bilaterali con i singoli governi di Norvegia, Finlandia, Austria, Belgio e, ovviamente, Italia.

Intanto, mentre la Banca Mondiale ha messo in atto un piano per investire 80 milioni di dollari per «progetti di sviluppo», molte grandi multinazionali europee – tra cui Shell, Bp e la norvegese Statiol – stanno facendo a gara per investire massicciamente in Birmania, soprattutto nei settori del petrolio e del gas.

Anche le imprese italiane, come annunciato dal Ministro Giulio Terzi nella sua missione in Birmania dell’aprile scorso, sono interessate, visti i nuovi sviluppi, «all’accesso alle gare d’appalto in un Paese da ricostruire», in particolare nel settore delle infrastrutture e dell’energia. E l’incontro di questi giorni ha portato proprio ad un rafforzamento della «Dichiarazione congiunta» che rappresenta la testimonianza della volontà d’intensificare i rapporti politici ed economici bilaterali tra i due Paesi.

Per molti analisti della situazione asiatica, quelli che vengono chiamati «nuovi sviluppi» non sono altro che un cambiamento di facciata, essendo essi convinti che il potere economico, comunque, resterà sempre nelle mani della giunta militare e dei pochi affiliati.

Dietro gli ultimi scontri a fuoco che stanno dilagando nel nord-est della Birmania, al confine con la Cina, contro l’etnia Kachin, si celano molto probabilmente gli interessi che il Paese vuole mantenere con il suo storico partner di Pechino. Nello Stato Kachin, dopo diciassette anni di «cessate il fuoco», nel giugno del 2011, sono rincominciati gli scontri, proprio quando i leader Kachin si sono rifiutati di abbandonare una postazione considerata strategica.

In queste zone gli interessi economici cinesi sono altissimi. Infatti, in collaborazione con il governo birmano, la Cina ha investito oltre tre miliardi di dollari nel progetto idroelettrico della «diga Myitsone», sul fiume Irrawaddy, che è stato sospeso, ma non annullato, alla fine del 2011.

Le violenze degli ultimi mesi, che hanno visto anche l’uso di aerei da guerra ed elicotteri da combattimento MI 24 da parte dei soldati birmani, hanno causato la morte di diversi civili e lo sfollamento di oltre 100 mila persone.

Anche in altre zone etniche continuano i combattimenti. Gli scontri a carattere razziale-religioso nell’ovest della Birmania, nello Stato Rakhine al confine con il Bangladesh, tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana dei Rohingya, hanno provocato più di duecento morti.

A sud-est, al confine con la Thailandia, nello Stato Karen, nonostante siano in atto delle trattative di pace tra questa etnia e il governo birmano, si registrano scontri a fuoco e l’Esercito di liberazione Karen (Knla) ha denunciato il continuo rifornimento di armi e munizioni degli avamposti birmani nelle aree da esso controllate. Il conflitto, che vede contrapposti l’etnia Karen e il governo birmano, ha portato, in oltre sessant’anni di guerra, 500 mila rifugiati interni e 130 mila profughi nei campi di raccolta thailandesi.

Se è chiaro che il nuovo governo birmano – emanazione della giunta militare, che detiene ancora il 25% del totale dei seggi in parlamento senza la partecipazione alle elezioni – sta giocando al meglio le sue carte per aprirsi all’Occidente e allo stesso tempo per non perdere lo storico alleato cinese, meno chiaro risulta il perché questa combinazione di affari economici e strategici abbia indotto Stati Uniti ed Europa a dimenticare velocemente le continue violazioni dei diritti umani e la violenza subita dalle diverse etnie, che – è bene precisarlo – non sono una minoranza, ma rappresentano la metà della popolazione del Paese: «dettaglio» questo che, forse, sfugge al mondo degli affari.


Linkiesta | 10 Marzo 2013
di Fabio Polese

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