2 febbraio 2011

Con le ali ai piedi


Aishia era diversa da tutti loro, ma non perché era povera e non poteva permettersi le scarpe, bensì perché da dove arrivava lei non ce n'era la cultura


Aisha era giovane, molto giovane, forse troppo; come spesso avviene per chi nasce nei miseri sobborghi di una metropoli divisa a metà fra bianchi e neri senza che nessuno lo sappia, senza certificato di nascita, senza documenti d'identità, a volte senza una famiglia vera, al momento del tesseramento alla federazione mondiale atletica leggera si erano inventati dei dati verosimili: la sua data di nascita quindi era semplicemente “presunta”, dimostrava sì o no quindici anni, ma forse non lì aveva. Era stata scoperta per puro caso da un talet-scout americano in visita ad alcuni amici in un piccolo Stato africano: l'aveva vista correre a piedi nudi sull'asfalto, in una gara improvvisata fra ragazzini, ed era rimasto incantato dalla sua falcata ampia e leggera, dalla sua corsa così composta e pulita, dalla sua velocità e determinazione. L'aveva convinta a partecipare ad alcuni meeting africani, dopo averla allenata e seguita per un breve periodo: in fondo, per una come lei, senza casa, senza famiglia, senza niente di realmente suo, tutto sembrava meglio che vivere per strada. Era davvero micidiale sulla lunga distanza, riusciva tranquillamente a battere i colleghi uomini in tutte quelle prove che implicava la resistenza e scatto finale, così fu presto dirottata dai suoi allenatori nel fondo femminile; i 5000 erano la sua vera specialità, ogni volta ce la metteva tutta, perché sapeva perfettamente di non avere nient’altro per cui lottare, e quando cominciò ad attraversare le piste di mezza Africa da vincente, s’iniziò a parlare di lei e della possibilità di esportare il suo talento. Aishia non voleva lasciare l'Africa nera; quella era casa sua, non aveva mai potuto o voluto vedere altro, non ci teneva proprio. Nemmeno quando le prospettarono l’idea di partecipare a meeting prestigiosi, di guadagnare cifre molto buone e girare il mondo, lei si lasciò convincere: lì era “regina”, fuori dai confini, oltre il mare, forse sarebbe stata solo “schiava” o “cenerentola”. Quando però partecipò ai campionati nazionali d'Africa e fece un tempo così strepitoso e di assoluto valore internazionale da conquistare il diritto a gareggiare nei successivi Giochi Olimpici, l'avvenimento fu così eclatante che la convinsero a partire. Sicuramente quando alla cerimonia d’inaugurazione dei Giochi le migliaia di persone presenti, nonché i milioni davanti agli schermi televisivi, videro sfilare quell'unica atleta dalla pelle più nera del nero, dietro ad una bandiera mai vista prima e al cartello che riportava il nome di un paese che nessuno sapeva neanche esistesse, rimasero sorprese, o quantomeno incuriosite; chissà in quale specialità gareggiava quella ragazza dall'aria così sperduta, chissà cosa pensava mentre mille e più flash le illuminavano il viso, chissà qual era davvero il suo sogno olimpico…!
Non erano moltissime le atlete di tutto il mondo iscritte alla sua gara, così decisero di fare disputare tre semifinali, con ingresso immediato in finale per le prime tre di ogni batteria, più il ripescaggio dei sei migliori tempi. Aishia, per nulla intimorita al cospetto delle ben più famose e quotate avversarie, sorprese tutti per l'incredibile sicurezza con cui vinse la sua semifinale, dominando dal primo all'ultimo metro di gara: certo, le rivali più forti si erano probabilmente risparmiate mirando solo alla conquista della finale, senza sprecare energie inutilmente ed evitando di dare subito il 100% come invece aveva fatto lei, ma aveva pur sempre tagliato per prima il traguardo, e questo le valse indubbiamente l'attenzione di tutti, addetti ai lavori e non. Il giorno dopo tutti parlavano della ragazza africana venuto dal nulla, capace a piedi scalzi di battere fior di atlete della parte ricca del mondo: ne nacque un vero caso, Aishia e i suoi veloci piedi nudi divennero una specie di simbolo del terzo mondo, povero ma pieno di dignità e di forte dignità, e molti cominciarono a girarle intorno, spaventandola non poco rovinando in qualche modo l’atmosfera gioiosa e ingenua in cui fino ad allora aveva vissuto la sua esperienza olimpica. Alcune associazioni umanitarie cominciarono a tuonare e a prenderla come scusa per ribadire come nel mondo ci fosse questa terribile disparità fra chi ha tutto e chi non ha niente, neanche le scarpe, e come fosse arrivato il momento di smuovere e svegliare le coscienze. Le federazioni internazionali di atletica continuarono l'opera, sostenendo che era una vera vergogna che si permettesse ad una atleta come Aishia, povera ma pure sempre essere umano in quanto tale, di battersi in condizioni di inferiorità tecnica non avendo le scarpine da corsa. Infine ci si mise anche uno degli sponsor officiale dei Giochi Olimpici, una notissima marca di calzature e abbigliamento sportivo; che figura ci avrebbe fatto il marchio, agli occhi del mondo, se avesse permesso un tale scempio, soprattutto in una finale olimpica! Come minimo sarebbe stato tacciato di razzismo! Fu così che una piccola delegazione ufficiale, il giorno prima della finale, si recò da Aishia durante il suo ultimo allenamento, portandole un paio di scarpe, fra l'altro uno degli ultimi ritrovati tecnologici del settore, offerto dallo sponsor: le avrebbe assolutamente dovute indossare, così dissero con aria che non lasciava spazio a repliche, era una questione di regolarità della gara, ma soprattutto di immagine. Aishia piena di buona volontà, le indossò e provò a correre, non appena se ne furono andati. La sensazione che ne ricavò fu a dir poco terribile: si sentiva legata, stretta in una morsa, come chiusa in gabbia, e per un animale selvaggio come lei non era proprio accettabile. Però cosa le avevano appena detto? Avrebbe assolutamente dovuto indossarle o la sua partecipazione alla finale non sarebbe stata regolare; così lei ci riprovò, non pensò più a niente e si mise a correre, correre, correre… forse così i suoi piedi si sarebbero abituati a quelle catene! Quando si levò le scarpe, i suoi piedi erano pieni di dolorose vesciche, quasi non li sentiva più… No, non avrebbe gareggiato in quelle condizioni, non poteva, non voleva… Stanca, delusa, amareggiata, corse nella sua stanza a radunare in un sacchetto le sue poche cose: quello non era un posto per lei, li avevano diritto di stare quelli con le scarpe ai piedi, non quelli con le ali… Stava per uscire dal villaggio olimpico, non sapeva neanche lei per andare dove, o per fare che cosa, quando una ragazza tedesca, una delle più portate per la vittoria finale dei 5000, la notò e la vide che aveva le lacrime agli occhi, cosa non normale per un atleta che sta per giocarci una finale così prestigiosa e dovrebbe invece essere al settimo cielo. Le si avvicinò con molto garbo, cercando di non spaventarla ancora di più, la convinse non senza fatica a tornare indietro con lei e le offrì una bibita al bar. “Perché te ne vuoi andare? L'altro giorno hai corso benissimo, sei brava davvero... Cosa può essere successo di così terribile”? Dopo qualche momento di silenzio, frutto umano di diffidenze e paura, Aishia si lasciò andare in un pianto dirotto da bambina disperata. “Vogliono costringermi a correre con le scarpe, me non ha mai corso con le scarpe, non mi piace...” A Ingrid scappò un sorriso; era sicuramente la veterana di quella finale, correva da anni ormai, e mai si era trovata di fronte ad una situazione così unica, strana, paradossale. “Guarda che correre con le scarpe giuste ai piedi può darti davvero una marcia in più, soprattutto quelle di oggi, leggerissime, che prendono perfettamente la forma dell'arto...” Aishia era in lacrime: si tolse le scarpe, i calzini e, disperata, cercò un barlume di comprensione. “Ci ho provato, sai? Guarda come mi sono ridotta, non riesco neanche a camminare... Io ho sempre corso scalza, la mia pista in Africa sono le strade, i marciapiedi, i prati, non possono costringermi a questa pelle di gomma...!” Ingrid guardò inorridita tutte quelle vesciche sui suoi poveri piedi gonfi: cosa le avevano fatto loro, i signori perbene del ricco mondo benpensante? Improvvisamente capì: Aishia era diverso da tutti loro, ma non perché era povera e non poteva permettersi le scarpe, bensì perché da dove arrivava lei non ce n'era la cultura, forse anche per un problema di ordine economico, ma era così. Chissà, forse volevano mettere a tacere le coscienze del terzo millennio con quell'inutile gesto di circostanza: un paio di scarpe dell'ultima generazione a chi non l’avrebbe mai potuto voluto, un ordine mascherato da dono, destinato più a far danni che a riparare un torto di portata storica come quello. Ingrid la strinse in un abbraccio fraterno e cercò di calmarla: voleva farle sentire che non era sola, che di lei poteva fidarsi, e alla fine la convinse a rimanere, promettendole di rimediare al pasticcio. Contattò subito personalmente tutte le finaliste della loro gara, una per una, spiegò loro il dramma umano di Aishia e fece fermare loro una dichiarazione, in cui si schieravano apertamente dalla parte della giovane collega, tutte indistintamente, dal momento che nessun regolamento ufficiale obbligava le atlete a gareggiare con le scarpe ai piedi. Presentò il documento ai vertici della Federazione, ai giudici di gara e rese tutto pubblico con un'improvvisata conferenza stampa: in questo modo, nessuno avrebbe potuto imboscarlo, dicendo che non era mai esistito, nell'interesse dell'immagine internazionale dello sponsor. Fu così che Aishia venne autorizzata ufficialmente a correre la finale con ai piedi ciò che voleva, scarpe da ginnastica, tacchi a spillo o ali. La sera della gara, lei si presentò a testa alta e scalza, come sempre. Aveva piovuto parecchio durante il giorno, la pista era difficile, pesante, scivolosa, nessuno si sarebbe mai sognato di correre senza un'adeguata suola antiscivolo, nessuno tranne lei. Prima della partenza tutte le colleghe andarono a salutarla e a stringerle la mano: lei ricambiò tutte con un grande sorriso di gratitudine, si erano battute per i suoi diritti e la sua dignità, e questo era già stata una bellissima vittoria. Anche la grande folla presente allo stadio, al momento della presentazione delle finaliste, le tributò un lungo e sentito applauso; dopo tutto quel parlare e riparlare di piedi, di scarpe, di interessi economici e di immagine da difendere, inutile dire che tutti erano pronti a tifare per lei.
Un colpo di pistola è la gara iniziò. Aishia, contrariamente al suo solito, rimase coperta, in mezzo al gruppo, fin dai primi metri; aveva ancora in piedi gonfi, una vescica in particolare le faceva molto male e non le permetteva di fare rullare bene il piede e poi il fondo sintetico bagnato della pista risultava davvero molto pericoloso. Sembrava tutto fermo, tutto tranquillo, quando ci fu uno scatto improvviso a tre giri dalla fine, a dare uno scossone ad una corsa che fino a quel momento era stata tutta tattica e niente emozione: l'atleta spagnola tentò un allungo a sorpresa subito seguita e tallonata da Ingrid e dalle altre favorite. Per non perdere il treno e l'occasione per stare con i migliori, anche Aishia tentò un'accelerata, ma scivolò sul bagnato e finì con le ginocchia a terra. Si udì un gran boato di delusione generale, forse anche di dispiacere, a cui però fece subito seguito un lunghissimo applauso di sostegno e di incoraggiamento, non appena la gente capì, vedendola alzarsi e riprendere la corsa, che la giovane gazzella nera con le ali ai piedi non si sarebbe arresa così facilmente. Negli ultimi giri diede tutto di sé, ciò che aveva e ciò che non sapeva di avere dentro, strinse i denti per non pensare al male, alla sfortuna, alla sconfitta... Sentì che poteva ancora farcela e allora corse, corse alla disperazione, corse recuperando e superando una ad una le avversarie in un tripudio generale, corse fino a giocarsi tutto nell'ultimo tuffo, proprio sul traguardo... Qualche secondo dopo era là, seduta per terra a fissare incredula lo schermo gigante davanti a lei, con le piante dei piedi completamente rovinate, alcune vesciche rotte e sanguinanti, un ginocchio rosso di sangue in seguito alla caduta, e tutte le telecamere puntate su di lei e su quel suo volto di bambina stupita e felice. Ce l'aveva fatta, aveva vinto proprio lei! Piangeva, non sapeva più cosa fare, da che parte guardare... Ingrid, giunta seconda alle sue spalle, le porse una mano, l'aiutò a rialzarsi, l'abbracciò forte e, alzandole il braccio in segno di vittoria fece con lei il giro d'onore. E fu quella l'immagine votata dai giornalisti e addetti ai lavori come simbolo di quei Giochi: la veterana tedesca, bianca, bionda, meravigliosa atleta frutto di nuove tecnologie e allenamenti mirati, insieme alla giovane gazzella nera, forse non ancora del tutto consapevole della grande vittoria ottenuta, frutto di semplicità, di indubbio talento naturale, di un paio d'ali ai piedi.

Brano tratto dal libro "SportivaMente". Il libro viene venduto e il ricavato viene dato in beneficenza al gruppo missionario del Sacro Cuore di Pordenone: chi desidera acquistare il libro(Offerta libera) può rivolgersi all’e-mail di Roberta Selan: robertaselan65@alice.it

La Storia di Nikola si fa poesia


A Padova una terza media sceglie di portare agli Esami le poesie della poetessa serba-vicentina Rada Rajic tra le quali una dedicata ad un loro compagno di scuola che a 4 anni è stato 80 giorni rinchiuso in una cantina per salvarsi dai bombardamenti Nato

Padova: La classe Terza B della scuola media Briosco è rimasta in silenzio, ad ascoltare le parole della poetessa serba-vicentina Rada Rajic Ristic, mentre leggeva le sue poesie. L'interesse era davvero grande, soprattutto quando le poesie hanno parlato di una storia che aveva segnato la vita di un loro compagno neo arrivato in classe, Nikola, a quattro anni prigioniero per ottanta giorni in una cantina, sotto il bombardamento della Nato. Solo grazie alla mediazione di Rada, la storia di Nikola, ha potuto diventare un patrimonio comune della classe, una sofferenza comune anche ai compagni, che - solo perché si trovavano qualche chilometro più in là - avevano invece vissuto per quegli stessi ottanta giorni partite di gioco nel cortile di casa, e che di certo hanno sentito i cupi rumori di aerei che sorvolavano anche il nostro territorio, senza in quel momento comprenderne il significato.
I ragazzi hanno scelto di imparare a memoria, fra quelle che hanno portato all'esame di Terza Media, proprio Primavera 1999, la poesia che parla di "missili che cadevano più veloci delle piogge primaverili", e di "nuvole mandate via dalla paura", "scappate".
Nel secondo incontro, la poetessa ha portato un libro bianco con immagini dello stesso bombardamento che li aveva tanto colpiti. Al silenzio, si è sostituito il fermento intorno al libro, e successivamente la costernazione per l'immagine più triste di tutti: un treno squarciato dalle bombe mentre stava correndo. Quella fotografia ha destato una grande impressione nei ragazzi, perché si è intrecciata di nuovo con la storia del loro compagno, Nikola, che abitava molto vicino a quei binari colpiti dalle bombe, chiuso nella sua cantina.
La storia di Nikola, illuminata dalle parole di Rada, che è anche la sua mediatrice culturale, è diventata storia di tutti, ma soprattutto è diventata Storia. Un'esperienza unica per molti ragazzi che hanno molto apprezzato le poesie della poetessa serba, versi che parlano di vissuto, di emozioni, di storia.
A Nikola Ivkovi è andato un premio speciale, il riconoscimento "Merito al merito" per essere portatore di valori umani profondi e poi una dedica speciale scritta dai compagni di classe. «Nikola, tu ci hai insegnato che, a quattro anni, si può rimanere chiusi in una cantina, per ottanta giorni e ottanta notti. Ce l'hai fatta respirare quella cantina, così tanto bombardata perché vicina alla ferrovia. Siamo stati anche noi, laggiù, con te, per un soffio. Ma con il tuo arrivo nella nostra classe ci hai dato una lezione molto più grande. Imprigionato in un involucro senza parole, dove le nostre parole non potevano raggiungerti, fin dal primo giorno, ci hai insegnato che le parole non erano necessarie per testimoniare l'accoglienza, la collaborazione, il dialogo fra le diversità. Capivi benissimo oltre le parole e senza le parole. Ti bastava uno sguardo per capire i bisogni degli altri. Hai aiutato con dedizione anche persone che non conoscevi, per dinamiche che non capivi, ad esempio accogliendo i ragazzi di Prima. E chi doveva essere accolto più di te, che eri appena caduto qui da un altro mondo? Ma tu non badavi a te. Pensavi ai ragazzi di Prima. Hai sempre avuto gli occhi vivi, attenti a percepire la minima necessità in cui tu potessi renderti utile. Hai insegnato che l'umanità esiste, al di là delle parole. Hai insegnato la sensibilità, l'accoglienza, l'importanza di partecipare. Grazie, Nikola».

La Nuova Responsabile delle Donne alle Nazioni Unite annuncia un piano d'azione per i primi 100 giorni



24 gennaio 2011 - Il Direttore Esecutivo della nuova agenzia delle Nazioni Unite per promuovere i diritti delle donne e la piena partecipazione negli affari globali, ha annunciato un piano d'azione nei primi 100 giorni. Tale piano abbraccia un ampio spettro di problematiche sia nazionali sia all’interno del sistema delle Nazioni Unite.
"La forza delle donne, la saggezza delle donne sono la più grande risorsa non sfruttata del genere umano", ha detto alla prima sessione ordinaria del consiglio esecutivo dell'agenzia, il direttore esecutivo delle Nazioni Unite sulle donne, Michelle Bachelet, ex presidente del Cile. "La sfida, quindi, per le donne delle Nazioni Unite è di mostrare le proprie capacità e come questa risorsa possa essere effettivamente sfruttata in modo da giovare a tutti noi".
Sottolineando la necessità di "equilibrare l’ambizione con un buon senso comune", ha detto la signora Bachelet, le donne presenti alle Nazioni Unite si concentreranno su cinque principi fondamentali: migliorare l'attuazione di accordi internazionali da parte dei partner nazionali; sostegno dei processi intergovernativi volti a rafforzare il quadro globale in materia di parità di genere, sostenendo l'uguaglianza di genere e l'emancipazione delle donne, promuovendo la cooperazione con le Nazioni Unite sul problema, e, agendo come mediatore globale di conoscenze ed esperienze.

10 modi per sfamare il mondo


È possibile realizzare il primo obiettivo degli otto punti del millennio, “porre fine alla fame nel mondo” entro il 2015?

Sabato, 29 Gennaio 2011, dalle ore 15:30 alle 18:30 si è tenuta una tavola rotonda presso la sala della 2° Circoscrizione - Largo Volontari del sangue, 9 Pesaro.
Rappresentanti di organizzazioni religiose, di aiuti umanitari, ambientaliste e risoluzioni dei conflitti si confronteranno e faranno il punto sul lavoro e la cooperazione fra le Organizzazioni delle Nazioni Unite (come il World Food Program) e le organizzazioni non governative per l’attuazione degli obiettivi del Millennio.
A fine settembre 2010, il Direttore esecutivo del WFP (World Food Program), l’agenzia delle Nazioni Unite per il “Programma Mondiale per il Cibo”, Josette Sheeran ha elencato presso il National Press Club di Washington D.C. i dieci punti di una strategia per risolvere il problema della fame nel mondo.
“Risolvere il problema della fame nel mondo è possibile in questa generazione”, ha affermato il Direttore esecutivo del WFP quando ha illustrato la strategia dei dieci punti del suo programma.
Quali sono i dieci punti, in breve, del World Food Program?
1. Azioni umanitarie; 2. Mense scolastiche; 3. Piani di pronto intervento; 4. Infrastrutture tra i piccoli agricoltori e il mercato; 5. I primi 1000 giorni; 6. Dare spazio alle donne; 7. Rivoluzione tecnologica; 8. Costruzione di area residenziali sicure, 9. Coinvolgimento di ogni singola persona, 10. Giusto modello di leadership.
Nel 2010, il numero di persone affamate sulla terra è diminuito per la prima volta in 5 anni, e questa è una buona notizia, ma non buona abbastanza. Ci sono ancora 925 milioni di persone, soprattutto bambini, che non sono nutrite a sufficienza per essere considerate sane.
Riportando le parole ottimistiche della Sheeran: “ho visto una rivoluzione nell’approccio alla pace in questi due anni. I risultati stanno andando nella giusta direzione… per la prima volta negli ultimi 15 anni. Credo in un modello concreto per far finire la fame nel mondo. Sono necessarie nuove partnership per portare nuove ed efficaci soluzioni per cambiare le dinamiche del Obiettivo del Millennio entro il 2015. La gente che non ha cibo ha solo tre opzioni: possono migrare, possono ribellarsi, oppure morire di fame”.
I rappresentanti delle O.N.G. hanno discusso ed esaminato quali strategie sono le più efficaci e quali meno.

La rivista Il Muslim è arrivata al suo terzo anno di vita e ne approfittiamo per rivolgere alcune domande al suo direttore Ibrahim Chabani.

La rivista islamica italiana "Il Muslim" al suo terzo anno: tra dedizione, entusiasmo ed equilibrio.

Di Carlo Chierico.
Ci troviamo nella sede del Centro Culturale Islamico di Monza, dove si respira un'atmosfera “spirituale” molto piacevole, da vero centro di culto e meditazione, anche se oramai sta diventando insufficiente per accogliere i fedeli, soprattutto quando arrivano numerosi come per la preghiera del venerdì.
Incontriamo il direttore della rivista insieme a Fouad Selim, responsabile del Centro Islamico e al dottor Beaudee Zawmin, esponente dell'opposizione democratica birmana in visita nel nostro Paese.
Ibrahim Chabani, di origini algerine, laureato in Teologia Islamica presso l'Università di Algeri, è arrivato in Italia nel 1992 e si esprime in un italiano davvero perfetto. Sposato e padre di 3 figli, spesso in viaggio, divide il suo impegno extra-lavorativo tra le comunità islamiche di Milano, Monza e Sesto San Giovanni.
Come nasce l'idea di dar vita a una rivista islamica in lingua italiana come Il Muslim?
Io non sono un giornalista professionista – sarebbe troppo impegnativo! - ma un giornalista amatoriale. Ho lanciato questo progetto della rivista in ritardo, perché in Italia ci sono oltre un milione e mezzo di musulmani che non hanno un loro mezzo di comunicazione a disposizione per far conoscere la loro cultura, la loro realtà, le loro aspirazioni e i loro progetti. E questo non è normale. O meglio, solo in parte è normale perché la comunità musulmana in Italia è recente, la maggior parte è arrivata circa 20 anni fa, con il boom dovuto alla Legge Martelli sull'immigrazione. Prima c'erano solo pochi studenti.
Quindi la comunità islamica in Italia è molto giovane?
Io la definisco bambina. E' una comunità che ancora non sa neanche comunicare, che deve imparare a pronunciare le prime parole e Il Muslim rappresenta questo tentativo. Noi speriamo che le parole pronunciate dalla nostra comunità attraverso questo mezzo siano parole utili.
Quando è nata la rivista?
Abbiamo cominciato a pubblicare Il Muslim durante il Ramadan del 2009. Abbiamo scelto il mese di Ramadan proprio perché è il mese sacro, il mese in cui il Corano è sceso sul Profeta Mohammad (pace e benedizioni siano su di Lui). Essendo anche le nostre delle “prime parole”, speriamo che questo strumento possa essere benedetto.
Quante persone collaborano con la sua redazione?
Abbiamo cinque persone fisse e altre che ruotano. Ci troviamo a Milano perché è qui che si trova il 70% dei media italiani e dove si trova la comunità più avanzata in termini di percorso e di progetti.
Qual è la reazione delle comunità musulmane al vostro prodotto editoriale?
Ho iniziato questa rivista ma non mi aspettavo una reazione del genere, estremamente positiva. Ad un certo punto mi volevo fermare perché sono una persona che inizia i progetti e poi li dà ad altri, perché mi sono reso conto che era una sfida più grande di me. La rivista è stata accolta come un neonato, con grande affetto e amore, come se fosse attesa da anni.
Quante copie vendete e quali sono i vostri canali di distribuzione?
Ultimamente vendiamo circa 3000 copie per ogni edizione; la distribuzione avviene attraverso le moschee e i centri culturali, non siamo in vendita presso le edicole.
Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato e che incontrate tutt'ora?
Innanzitutto la questione del finanziamento. Poi, direi, la distribuzione e infine il fatto che non arriviamo a tutta la comunità. Qualsiasi gruppo o associazione cerca di far conoscere la cultura islamica in generale, il che è buono ma rappresenta anche un problema perché essere aperti verso tutti è difficile. Noi non rappresentiamo la maggioranza o l'opposizione, né un gruppo o delle tendenze. Siamo aperti verso tutti: abbiamo una linea responsabile, equilibrata e coraggiosa.
Cosa intende dire e cosa significa questo nel concreto?
Nel concreto, significa, che non sosteniamo né gruppi di destra né di sinistra e che non diamo spazio a chi parla contro qualcun altro. Se mi arrivano articoli del genere, anche se da persone che sono punti di riferimento della nostra comunità, non li pubblico, anche se è una scelta difficile. Vogliamo discutere solo le cose e gli eventi in sé. Questo è un percorso lungo e difficoltoso ma nella mia vita ho imparato ad avere pazienza perché ogni mia attività non è per me ma per il mio Signore. Io sto investendo per l'aldilà, non mi aspetto niente in questa vita.
Qual è la parola chiave de Il Muslim?
Direi che è l'equilibrio. Nel Corano c'è una sura intitolata “Il Misericordioso” dove leggiamo: “Il Misericordioso ha insegnato il Corano. Egli ha creato l'uomo; gli ha insegnato ad esprimersi. Il sole e la luna secondo un calcolo. L'albero e tutto ciò che cresce si prostreranno. Egli ha innalzato il cielo. Ha istituito la bilancia”.
Senza bilancia tutto cade. L'equilibrio è la spina dorsale della religione. Non bisogna pensare solo a questa vita né solo all'aldilà. Tutto sta nel mezzo.
Come vede la situazione dell'Islam nel campo della comunicazione italiana?
Ci sono delle realtà che si stanno muovendo, soprattutto in alcuni piccoli gruppi - come ad esempio la comunità marocchina, egiziana e tunisina - e comunità spirituali. Ma si tratta di realtà a livello provinciale o comunale. Di realtà come il Muslim, che è un mezzo di comunicazione che crede di parlare a nome di tutta la comunità islamica italiana e per tutta la società, non ce ne sono. Parlare a nome non vuol dire però rappresentare la comunità, non è quello il nostro ruolo. Noi descriviamo la sua realtà, chiediamo diritti e incitiamo a compiere i doveri.
E' quindi possibile parlare a nome di tutta la comunità islamica italiana?
La gente ci conosce, sa che siamo sinceri, che serviamo la comunità e che non siamo ipocriti. Abbiamo sempre messo a disposizione della comunità il nostro sacrificio e non abbiamo mai preso niente. Inoltre le persone si riconoscono nella nostra linea.
Come vede il futuro de Il Muslim?
Una volta che un neonato, come Il Muslim, nasce, bisogna dargli un nome e farlo cominciare a parlare. Dai 4 ai 10 anni sono i genitori che fanno il lavoro dando una linea al bambino. Ma poi è lui durante l'adolescenza e la gioventù che sceglie la sua identità. Quando hai a che fare con il Signore serve per prima cosa la sincerità. Solo così arriverai, prima o poi. E se non sarai tu ad arrivare, sarà il tuo bambino.

Notizie dal Kyrgyzstan


La posizione geostrategica, con i turbolenti confini uzbeki e tragiki, rende rilevante il montuoso paese centro asiatico.

Di Carlo Alberto Tabacchi

Dopo gli scontri che hanno duramente colpito il sud del paese nel giugno 2010, con oltre 300 persone uccise, migliaia di feriti, numerosi uzbeki ritornati nel paese natio ed abitazioni ed infrastrutture distrutte, la situazione apparentemente sembra essere tornata alla normalità. Ad Osh, la seconda città, le strade sono di nuovo trafficate, il famoso ed antico bazar è di nuovo riaperto e molti abitanti ricominciano la ricostruzione o la ristrutturazione degli edifici e die negozi danneggiati. Il Governo sostiene Di impegnarsi al massimo per ristabilire un clima di fiducia tar le due comunità Kirghisa ed uzbeka, Che Hannover Datong via agli scontri: la scintilla Della rivolta non è stata ancora chiarita.
Piuttosto interessante è la multietnicità: circa 5,3 milioni di abitanti divisi tra Kirghisi (71%), usbeki (15%), e russi (8%); nella capitale, Bishkek oltre la maggioranza Kirghisa, esistono minoranze russe, uigure (cinesi mussulmani dello Xinijang), tatari, coreani, Kazaki, uzbeki, ucraini: un vero e proprio melting-pot!
Dal 2000 ad oggi, l'OCSE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, con sede a Vienna) ha organizzato sette osservazioni per monitorare le elezioni presidenziali e/o parlamentari, inviando quindi numerosi osservatori.
Con altri 230 osservatori dell'OCSE sono andato a controllare una decina di seggi a sud di Osh, per le elezioni parlamentari dell'ottobre 2010: libertà di voto e tranquillità hanno caratterizzato questa tornata elettorale in tutto il paese.
Nella mia area di osservazione (insieme ad un moscovita), Alaj verso il confine tragico-cinese, ho attraversato colline e passi, vedendo sullo sfondo l'imperiosa ed innevata catena del Pamir (7150 metri!), in un paesaggio silenzioso e morbido tra greggi di pecore e capre. I tratti mongoli della popolazione mi hanno ricordato l'invasione di Gengis Khan nel tredicesimo secolo.
Nel Kyrgyzstan ha vinto il partito di opposizione Ata Jurt conquistando 28 seggi contro i 26 del Sdpk (socialdemocratico): la situazione politica resta ancora fluida ed incerta (le elezioni presidenziali sono previste il prossimo autunno) e si prefigurano coalizioni di più partiti, in quanto il quadro permane alquanto frammentato (erano in lizza ad ottobre ben 29 partiti).
Da un punto di vista internazionale, il paese centro asiatico resterà per lungo tempo, dovuto alla sua povertà e alla mancanza di risorse, soggetto alle mire soprattutto di Mosca (che detiene una base militare a Kant, vicino la capitale) che non vuole perdere influenza ed autorità e di Washington che nell'aeroporto di Manas mantiene una flotta di aerei per la logistica che utilizza in Afghanistan.
Nell'antichità il Kyrgyzstan rappresentava la silkroad tra Europa e Cina ma negli ultimi anni sembra la meta preferita per il passaggio di droga da Afghanistan-Tagikistan e poi Kazakistan e Russia.
Uno dei temi più sensibili nel contesto della politica estera Kirghisa, connesso alla vicinanza geografica con il teatro afghano, è il rischio di infiltrazioni di forze terroristiche di matrice islamica fondamentalista nel territorio nazionale con lo scopo di destabilizzare un attore strategico quale il paese centro asiatico. La volontà di gruppi terroristici sarebbe quella di alimentare il clima di tensione già presente per un duplice scopo: da una parte allearsi con le forze interne contrarie al nuovo corso politico per rovesciare il governo e potersi muovere più liberamente quel territorio, dall'altra parte mettere in discussione la presenza americana nell'aere, rendendo il Kyrgyzstan un soggetto fortemente instabile e quindi non adatto ad ospitare una base militare statunitense.
Plausibile è la possibilità per tali gruppi terroristici di usufruire del caos politico per gestire in libertà traffici illegali in transito nel paese verso il Kazakistan e la Russia.

CYBERWAR

Lo spazio cibernetico è diventato il quinto "campo di battaglia" dei conflitti dopo terra, mare, aria e spazio. La velocità con cui le aggressioni informatiche potrebbero essere lanciate dà poco tempo per una riflessione rapida e favorisce attacchi preventivi.

di Carlo Alberto Tabacchi

Nell' agosto 2008, i server della Georgia subirono attacchi informatici prima, durante e dopo la breve invasione russa. E' indiscussa la responsabilità di hacker russi riuniti in modo informale, ma si sospetta il coinvolgimento dei servizi segreti di Mosca. Tale offensiva informatica è stata simile ad una "guerra insurrezionale" con la partecipazione di civili ("patrioti").
Da parte sua, l’amministrazione Obama già dal giugno 2009 dichiarava la sicurezza cibernetica elemento strategico di sicurezza nazionale (con 1'istituzione di un coordinatore ad hoc, denominato cyberczar). Gli Stati Uniti, in quanto paese più tecnologicamente avanzato, informatizzato ed interconnesso al mondo, risultano i più esposti ad offensive informatiche e temono la potenza cibernetica di Pechino e di Mosca, non sottovalutando le capacita future di Giappone, Iran, Israele ed India.
La principale preoccupazione statunitense riguarda la protezione delle più vulnerabili infrastrutture civili rispetto a quelle militari. Finora sembra vaga la dottrina di Washington per condurre operazioni di contrasto: intende rafforzare le proprie cibercapacità aggressive di deceive (ingannare), deny (negare l’accesso), disrupt (disturbare), degrade (ridurre l’operatività), destroy (distruggere) apparati informatici e di comunicazione in ogni parte del globo. Come contromisura, gli Stati Uniti stanno aumentando l’arruolamento di ciberguerrieri, anche pianificando percorsi scolastici, universitari, professionali e di carriera.
Alcuni ricercatori americani hanno dimostrato il potenziale dell'uso di attacchi informatici per annientare i registri finanziari, interrompere l’operatività energetica e compromettere le reti necessarie alle operazioni militari. Settori sensibili delle infrastrutture — elettrico, gasifero, petrolifero, idrico — risultano sempre di più un obiettivo altamente strategico.
Date le fondate preoccupazioni in merito al problema, diversi paesi fanno pressioni affinché si adottino nuove iniziative per mettere in sicurezza il ciberspazio, attraverso un numero vorticoso di forum internazionali the si contendono un ruolo nella governance di internet.
Una reazione esagerata a minacce cibernetiche potrebbe essere devastante. Nel tentativo di aumentare la fiducia, gli Stati Uniti devono lavorare per cercare di preservare il nucleo di attributi della rete che la rendono cosi preziosa per lo scambio economico: innovazione, apertura ed una governance limitata. Tali peculiarità rendono la rete flessibile in modo che i nuovi impieghi possano essere sviluppati rapidamente, per cui milioni di utenti e dispositivi si possano connettere ogni anno, espandendo il libero flusso di idee e i risultati del commercio internazionale.
L' impennata del commercio globale, sia di beni che di servizi e dovuta anche alla tecnologia di internet.
Come nazione più collegata al mondo, gli Stati Uniti devono lavorare all' interno della rete internazionale per contenere attori con intenzioni malevole, sviluppare meccanismi cooperativi per catturare i criminali, limitare lo spionaggio ed elaborare una normativa di contenimento dei conflitti nel ciberspazio. Le alternative a questo approccio sembrano poco attraenti: includerebbero la riduzione forzata della messa in rete dei sistemi, irrigidimento della regolamentazione per la sicurezza alquanto costosa, la protezione attiva delle infrastrutture critiche nel ciberspazio da parte delle agenzie governative.
Non esiste un unico forum che possa includere tutte le questioni ed i protagonisti impegnati ad affrontare questo delicato problema. Piuttosto gli Stati Uniti dovrebbero promuovere una serie di incontri multilaterali, bilaterali e, in qualche caso, regionali per gestire tali imprevedibili sfide.
Per oltre un decennio le strategie di sicurezza hanno sofferto una paralisi dovuta ad un "problema di attribuzione". E' reso complicato soprattutto da 4 fattori attribuire un attacco informatico: primo, gli attacchi non richiedono una prossimità geografica; secondo, non esiste un sistema equivalente ai radar per individuare l’origine di un'aggressione, cosi come esisteva per gli attacchi missilistici ai tempi della Guerra Fredda; terzo, i protocolli che governano il traffico di internet sono profondamente insicuri e l’origine dei pacchetti può essere celata; e, per ultimo, gli esecutori degli attacchi solitamente impiegano uno o più sistemi compromessi come punto di lancio per le proprie offensive, attraversando numerosi confini internazionali con lo scopo di complicare il processo investigativo.
Quando avvengono attacchi informatici, troppo spesso gli stati dichiarano la propria estraneità o innocenza, indicando come probabili colpevoli degli hacker "patriottici" non in grado di essere identificati o controllati; inoltre, sussiste il delicato problema della sovranità nazionale, di cui ogni stato è particolarmente geloso.
I paesi che non cooperano alle investigazioni dovrebbero comprendere che rifiutarsi di collaborare verrà considerato un segno di complicità. Le risposte possono essere tradizionali, come proteste diplomatiche, sanzioni ed operazioni militari, ma anche azioni sulla rete, inclusa una sorveglianza ad alto livello per il traffico di internet degli stati che non vogliono collaborare e, in ultima istanza, il blocco dell'accesso alle reti dell'America e dei suoi alleati agli stati che continuano ad essere non allineati.
II crimine informatico, silenzioso ed impalpabile, e ormai diventato la scelta occupazionale prediletta per i criminali in quanto comporta rischi relativamente bassi e benefici economici alti.
In conclusione, come odierna potenza informatica, gli Stati Uniti devono lavorare per potenziare nuovi meccanismi internazionali che interrompano azioni delinquenziali, perseguano i criminali e limitino gli stati protagonisti di attività informatiche esiziali. Insieme agli investimenti per la riprogettazione dei protocolli alla base di internet, che li renderanno più sicuri, questi sforzi possono preservare ed estendere il valore economico che deriva da internet.

Fin che la Barca va…


Di Giorgio Gasperoni
Viviamo in un mondo di crescente angoscia globale. Nessuno sa cosa accadrà alle principali valute mondiali, anche solo fra un anno. La disoccupazione rimane persistente in molti paesi sviluppati. L’insoddisfazione sociale è in aumento. Il riscaldamento globale ci mette di fronte a scelte difficili. Il terrorismo globale continua.
Questa situazione di grande incertezza non avrebbe dovuto coglierci impreparati, e una spiegazione alquanto semplice, esiste.
Il mondo è cambiato radicalmente. L'umanità no. Oppure, per essere più precisi, l'umanità non ha cambiato i suoi principi fondamentali per affrontare un mondo mutato.
Mi piace prendere spunto da una metafora di Kishore Mahbubani, Yale University, in un suo articolo sulla globalizzazione; essa dimostra come il nostro mondo è cambiato drasticamente.
Prima dell'era contemporanea di rapida globalizzazione, in cui l'umanità ha vissuto in 192 nazioni diverse, è stato come vivere in 192 barche separate. Quindi, tutto ciò che il mondo aveva bisogno erano le regole per evitare collisioni. L’ordine del 1945 basato su regole precise, ha fatto proprio questo, consentendo anche della collaborazione.
Oggi, a seguito di un mondo rimpicciolito, l'umanità non vive più su 192 barche separate. Invece, tutti i 7 miliardi della popolazione mondiale vivono in 192 cabine separate sulla stessa barca. Ma anche se viviamo sulla stessa barca, non abbiamo alcun capitano o l'equipaggio per gestire la barca.
Nessuno di noi si sognerebbe mai di navigare in mare su una barca senza capitano o l'equipaggio. Eppure, questo è esattamente ciò che l'umanità sta facendo con la Terra, come si naviga nel 21 ° secolo. I problemi globali richiedono azioni coordinate a livello mondiale per risolverli: dalla crisi finanziaria al riscaldamento globale, dalle pandemie al terrorismo globale. Eppure, nonostante questo, evitiamo la creazione di istituzioni e processi di governance globale.
La governance globale non è il governo mondiale. Nonostante questa distinzione cruciale, nessun governo nazionale ha il coraggio di sposare una maggiore governance globale.
Se una barca prende fuoco in alto mare, è pura follia chiudersi dentro le proprie cabine per proteggersi. Dobbiamo uscire dalle nostre cabine, cooperare con gli altri passeggeri delle altre cabine e spegnere il fuoco.
E questo è successo, di recente, con la crisi finanziaria mondiale.
Questa semplice metafora della barca fornisce una forte spiegazione ai problemi attuali del mondo. Durante la navigazione in alto mare, nessun capitano permetterebbe ai passeggeri di qualsiasi cabina di compromettere gli interessi della barca. Ma nell’attuale ordine globale, permettiamo agli occupanti delle cabine privilegiate di svolgere attività che mettono a repentaglio la nostra barca globale.
La triste verità sul nostro ordine globale è che, mentre i nostri leader nazionali a volte si uniscono per collaborare in risposta ad una crisi, non riescono a fare lo stesso quando si confrontano con una situazione cronica. (Vedi G20 di Seul).
Molti dei problemi attuali sono problemi cronici, non situazioni di emergenza. Il riscaldamento globale sta avvenendo, ma sta avvenendo lentamente. La maggior parte di noi non sentirà gli effetti domani, ma tra 20 o 30 anni. L'umanità risponde a questa crisi con la saggezza di una rana. Gettate una rana nell’acqua bollente e salterà fuori subito. Mettetela in una pentola d’acqua fredda e lasciatela riscaldare lentamente, proprio come il riscaldamento globale, la rana resterà soddisfatta nella pentola. La parte più intelligente degli abitanti del nostro pianeta riceve avvertimenti circa la crisi incombente che ostacolerà la vita dei nostri figli e nipoti senza, tuttavia, far nulla.
Serve a ben poco la tutela degli interessi della cabina se la barca nel suo complesso è in difficoltà. Molti dei problemi che affliggono le cabine - disastri economici, il riscaldamento globale, le pandemie e il terrorismo - possono essere risolti solo con un'azione coordinata a livello globale. I leader del G-20 devono dimostrare di essere non solo i leader che fanno gli interessi della propria nazione ma si occupano del bene del mondo.
I leader potrebbero sottoporsi ad un semplice test per dimostrare che stanno facendo la cosa giusta per il mondo. Di per sé, il G-20 non gode di alcuna legittimazione. Il gruppo rappresenta solo un insieme casuale di paesi, anche se alcuni dei paesi sono i più potenti del mondo. Per contro, le Nazioni Unite hanno una legittimità universale. Dopo ogni meeting il G-20, dovrebbe depositare una relazione presso le Nazioni Unite. Le Nazioni Unite dovrebbero essere al di sopra di qualsiasi altra organizzazioni di nazioni. I Leader di ogni singola nazione dovrebbero dimostrare che la loro missione reale non è solo quella di proteggere le loro cabine individuali, ma di proteggere la barca di tutti.

I dati sull’immigrazione

In Europa, e specialmente in Italia, l’immigrazione continua a crescere nonostante la crisi, rivelandosi un supporto necessario allo sviluppo del sistema paese:
2007- 08: aumento popolazione totale + 0,7%
aumento della popolazione immigrata +13,4%
Stranieri residenti in Italia
Dal 2005 al 2008
2.670.514 nel 2005 3.891.295 nel 2008
Aumento nel triennio: + 45,7% - Nell’UE: da 27,1 a 31,1 milioni (+14,4%)
Stima presenza regolare
In Italia, se si tiene conto delle oltre 400 mila persone in attesa di essere registrate nelle anagrafi comunali, la popolazione regolare straniera è di
4.329.000 persone
e supera per la prima volta l’incidenza media europea con 1 immigrato ogni 14 abitanti.
Incidenza degli stranieri in Italia: 7,0% - Incidenza degli stranieri nell’UE: 6,2%

L'impatto della migrazione sulla vita familiare

La migrazione ha chiaramente un impatto sulla vita familiare.
Una cosa che sappiamo è che i modelli di famiglia cambiano quando le persone si spostano in un altro Paese.
… Ciò è modellato dalle credenze e pratiche culturali che i migranti portano con loro, ma anche dalle forze economiche, giuridiche, sociali e culturali nella loro nuova situazione.
Sappiamo, per esempio, che normalmente la posizione delle donne nella famiglia migliora in qualche modo con la migrazione, hanno più opportunità di lavorare fuori casa e di portare un maggior contributo economico rispetto al paese di origine. Questi miglioramenti non sono automatici - le donne migranti incontrano, comunque, molte difficoltà. La migrazione può, infatti, aggiungere altri fardelli alle donne. Ma in generale le ricerche dimostrano che le loro famiglie diventano meno patriarcali e più egualitarie e la possibilità di poter guadagnare uno stipendio dà alle donne migranti accesso a risorse sociali ed economiche che in precedenza erano fuori dalla loro portata.
La migrazione colpisce anche le relazioni intergenerazionali nella famiglia. Spesso è una storia
di conflitto: i bambini, cresciuti in ambienti sociali e culturali nuovi, spesso si sentono limitati dalle tradizioni e valori dei loro genitori.
Conflitti tra genitori immigrati e i bambini nati e cresciuti nella nuova nazione si generano su una varietà di
situazioni: la disciplina, la libertà di uscire con gli amici, avere il ragazzo o la ragazza, la pressione di sposarsi all'interno del gruppo etnico, le grandi aspettative dei genitori per i figli nell’ambito scolastico e professionale. E’ troppo però affermare che la famiglia è un campo di battaglia tra le generazioni: le tensioni spesso si sviluppano, ma comunque i figli sentono profondo affetto e lealtà verso i loro genitori.
La migrazione porta spesso anche a famiglie internazionali.
… Nei paesi occidentali, aumentano il numero di madri e padri che vengono nelle nostre nazioni e lasciano i bambini nei paesi d’origine a causa di restrizioni legali. Non tutti i membri della famiglia possono migrare assieme legalmente. Una serie di studi analizza le ripercussioni della separazione familiare; per esempio, risentimenti percepiti dai bambini i cui genitori sono andati a lavorare in altri paesi, i sentimenti
di perdita e di colpa vissuta dai genitori migranti, così come l'impatto di tali separazioni sulle rimesse e i percorsi formativi dei bambini.
Inoltre, vi è l’altro aspetto da esaminare quando i bambini si riuniscono con i genitori nella nuova nazione.
… come avviene il riequilibrio e il vivere insieme dopo separazioni che possono aver avuto la durata di anni dopo che sono stati accuditi da nonni e parenti nei loro paesi di origine? Sembra tutto molto squallido, ma gli studi mostrano che le famiglie sono incredibilmente flessibili nel rispondere ai cambiamenti, e i membri familiari, di solito, restano profondamente uniti nonostante anni di separazione.

IMMIGRAZIONE ED INTEGRAZIONE

INTERVISTA AD ALEX E EUDOXIE

Copia camerunense, responsabili dell’associazione Camerunense dei Volontari del Progresso, molti attivi a Filago, provincia di Bergamo


Come vi siete conosciuti e poi formato famiglia in Italia(ed in
particolare a Filago)?
Ci siamo conosciuti in Camerun nel 1991 e dopo un fidanzamento di ben quattro anni, nel 1995 ci siamo sposati nel comune di Bafoussam, parte della provincia dei nostri genitori e lontana da quella della nostra residenza di allora. Nel frattempo mia moglie Eudoxie (Edy) continuava a studiare in Italia ed io oltre ad essere un nazionale della squadra di calcio del Camerun, ero un impiegato dell’istituto camerunense per la previdenza sociale.
Nel 2002, per fondare una vera famiglia, decisi di raggiungere mia moglie che si era laureata ed aveva iniziato a lavorare come ingegnere delle telecomunicazioni nella multinazionale Alcatel a Vimercate. Pertanto, decidemmo di stabilirci a Burago di Molgora vicino al suo posto di lavoro. Pensando ad avere figli, trovammo dopo una attenta ricerca nella zona di Filago, una casa abbastanza grande con giardino per offrire ai nostri figli i grandi spazi cui siamo stati abituati noi nella nostra infanzia.
Quali sono stati i motivi che vi hanno motivato ad investire ed
impegnarvi nella comunità (insieme come coppia)?
C’era stato sempre in noi una vera necessità di metterci in gioco, di dare qualcosa ad ogni comunità di cui abbiamo fatto parte fin dall’inizio della nostra integrazione. Abbiamo sempre pensato di poter scambiare e fare condividere la reciproca ricchezza spirituale e intellettuale, e convinti, sentivamo che per arrivarci bisognava soltanto adottare un approccio culturale diverso. Ci sentivamo parte di questa Società di accoglienza dove il modello di vita è simile al nostro. Prima di avere i figli ci siamo impegnati nella parrocchia di Burago come traduttori e animatori e mia moglie prima di me, ha fatto tanto per i bisognosi che si rivolgevano alle Caritas a Pisa, Perugia dove lavorava benevolmente. Abbiamo accolto ragazzi senza dimora a casa nostra, trovato una sistemazione ad altri.
In Camerun oltre al fatto che ero presidente dell’associazione degli sportivi contro l’aids, con mia moglie avevamo quasi cento bambini orfani a carico ai quali abbiamo sempre dato tutto per il buon perseguimento della loro crescita.
Vorrei ricordare che mia nonna aveva già negli anni 40/50 dopo la guerra iniziato un lavoro del genere predisponendo davanti a casa sua un secchio d’acqua e un casco di banane per gli altri contadini che avevano un lungo viaggio da fare a piedi per raggiungere i propri campi.
A Filago abbiamo trovato una nuova famiglia, una comunità aperta che ha voluto accoglierci e lasciarci esprimere nel modo più libero possibile dando a noi un’occasione vera di scambiare e di specchiarci sulla vera realtà che ci circonda. Il merito va alla comunità intera ma specialmente nella persona che la rappresenta e quindi al sindaco Zonca che ha saputo cogliere ogni occasione per renderci partecipi nel processo di mutamento sociale della nostra comunità.
Voglio qui dare alcuni esempi concreti, citare alcune iniziative oggi ricorrenti ma che hanno fortemente modificato il paradigma socio culturale e politico di Filago. Quest’anno organizzeremo:
- il 5° anno e 5° edizione della festa multiculturale e multietnica denominata FILAFRICA, che deriva dall’unità Filago-Africa, un momento di scambio artistico culturale che vede come protagonista lo straniero in generale e l’Africa in particolare al suo posto a Filago.
- il 2° anno e 2° edizione dell’AFRICA DAY, festa dell’unità africana lanciata in via sperimentale il 25 giugno 2010 a Filago con la collaborazione dell’UPF di Bergamo e che verrà riproposta lo stesso giorno quest’anno. L’iniziativa nasce per promuovere e rivalorizzare la storia, la cultura e l’arte di vivere la solidarietà, l’unione che fa la forza ed il senso dell’amicizia. Il nostro augurio è di fare sì che questa data sia un giorno memorabile per tutti quanti.
- il 3° anno e 8° edizione del CORSO GRATUITO D’INFORMATICA rivolto e dedicato specialmente alle persone anziane della comunità. Corso che abbiamo ideato al fine di promuovere e migliorare sempre di più il rapporto nonno-nipote che vediamo “subire una frantumazione” a causa delle barriere informatiche ed elettroniche
- il 3° anno e 3° edizione del CORSO GRATUITO DI LINGUA ITALIANA che rivolgiamo alle donne straniere con lo scopo di alfabetizzarle per migliorarne l’integrazione: un diverso modo di aiutare i nuovi cittadini nel loro percorso di inserimento
- il 3° anno e 3° edizione del CORSO GRATUITO D’INGLESE E FRANCESE che rivolgiamo a tutta la comunità. Mettiamo a disposizioni le nostre conoscenze linguistiche al fine di promuovere e facilitare una comunicazione globale.
- il 1° anno e 1° edizione dell’AIUTO COMPITI, uno spazio “dopo scuola” che viene dedicato agli alunni della scuola media per permettere loro di studiare e farsi aiutare nella preparazione dei compiti in classe. Una garanzia per i genitori che hanno la certezza che i figli sono seguiti e possono nello stesso tempo dedicarsi al proprio lavoro senza preoccuparsi della sorte dei propri figli, sapendoli in mano a giovani universitari responsabili.
Il nostro leitmotiv è sempre stato “Dare ancor prima di prendere” o ancora “cercare di dare e non solo prendere”. Cerchiamo di dare un contributo anche minimo a chi ha bisogno, insomma cerchiamo sempre di non chiederci cosa l’Italia ci dà ma cosa diamo o possiamo dare all’Italia.
Come avete visto modificarsi l'atteggiamento e la relazione con i vostri compaesani?
Il paese Filago ha avuto un cambiamento notevole sul piano strutturale e sociale. Sul piano sociale, gli autoctoni ci hanno accettato, ci siamo inseriti bene perché ci siamo dati da fare contribuendo e partecipando al raggiungimento del bene comune.
Il lavoro sul territorio ci ha dato una visibilità e il rispetto degli altri. Oggi non siamo più visti come un problema ma come una risorsa sul territorio. Infatti, il nostro esempio aiuta da una parte gli altri allogeni nel loro percorso di integrazione e dall’altra da agli autoctoni un modello di come confrontarsi con il diverso.
Nelle ultime elezioni comunali, il panorama politico strutturale del comune è cambiato con l’entrata di Edy nel consiglio comunale.
Ci auguriamo di non essere soltanto “noi” (Alex e Eudoxie) ad essere considerati bene ma “noi” chiunque diversamente filaghesi ad essere accettati e considerati come risorse

Che cosa a favorito la cooperazione con le istituzioni locali?
Secondo me, sono state l’intelligenza, il coraggio, e l’apertura verso l’altro del sindaco Zonca a fare scaturire tutto.
Come amministratore e come uomo, sono sicuro che sapesse già che una società che non vuole mescolarsi con l ’altro è chiamata a scomparire. Lui ha recepito e insieme abbiamo colto al volo l’occasione di collaborare.
Come vivete il legame con la vostra terra di origine ad oggi?
Come un legame molto forte, ombelicale nonostante la distanza. La nostra terra di origine è il posto dove siamo nati e dove vi sono ancora la mia mamma, la mia nonna di quasi 100 anni e altri fratelli. Qua in Italia, i miei figli hanno la fortuna di avere vicini a loro i nonni (la mamma e il papa di Edy) legame di cui sono felice perché a me non è mancato nella mia infanzia.
E’ sempre difficile essere lontani da casa propria, ma paradossalmente nella nostra visione di “casa”, ci sentiamo a “casa nostra” a Filago.
Sulla base della vostra esperienza qual è il messaggio che vorreste
trasmettere a chi come voi ha vissuto l'"immigrazione" e cerca "integrazione" qui in Italia?
Non è facile poter trasmettere messaggi con 2 frasi ma ci viene solo da invitare chi si sta incamminando in questo processo di integrazione, di impegnarsi “attivamente” e di rendersi partecipe prima di tutto facendo uno sforzo per capire la lingua di chi l’accoglie, di rispettare le regole del posto dove si è scelto di vivere e di far sì che la propria volontà e disponibilità faccia innescare nell’altro una curiosità positiva, una crescente voglia di apertura. Solo quando si arriva ad un certo grado di intendimento e di fiducia, s’istaura un vero scambio nel rapporto.
E’ vero che non è facile per nessuno, cioè né per voi né per noi, ma la solidarietà, il mutuo aiuto, il “dare” dopo il “prendere” o viceversa può essere una risposta a tutte le forme di pregiudizi e discriminazione.

Cambiamo prospettiva… L’immigrato che partecipa ed offre servizi alla comunità ospitate

il contributo dell’Associazione Camerunense dei Volontari del Progresso al comune di Filago.
di Silvia Rossoni

Il seminario Famiglia, Comunità e Pace organizzato dall’UPF a Bergamo lo scorso 25 settembre 2010, in occasione della ventinovesima Giornata della Pace proclamata dall’ ONU, ha visto la partecipazione di alcuni esponenti che lavorano con impegno e dedizione per l’integrazione e la pace.
Un esperienza positiva a tal proposito è data dal Comune di Filago, dove il sindaco Dott. Massimo Zonca coltiva ormai dal 2005 una fruttuosa collaborazione con l’Associazione Camerunense dei Volontari del Progresso .
Il sindaco inizia il suo intervento parlandoci con entusiasmo di Edy, sua valida collaboratrice di origine camerunense che riveste la carica di Consigliere comunale dall’aprile del 2010. Afferma il Dott. Zonca: “Edy per il ruolo d’importanza che riveste è simbolo di una collaborazione che è iniziata in modo tradizionale, è continuata in un modo fuori dal normale ed è sfociata in qualcosa di eccezionale!”
Per chiarire questa affermazione partiamo dall’inizio della collaborazione: nel 2005 un gruppo di persone provenienti dal Camerun si trasferisce a Filago e quasi subito chiede un incontro con il Dott. Zonca che all’epoca era già sindaco, al suo primo mandato.
I nuovi arrivati si attivano per raccogliere fondi a favore di bambini del Camerun bisognosi di venire in Italia per cure mediche. La loro intraprendenza fa muovere alcuni medici tra Camerun e Italia, fino a che il sindaco della capitale del Camerun interessata alla loro iniziativa prende contatti con il Dott. Zonca, chiede un incontro e viene ospitata nel 2006 per una settimana dalla comunità di Filago. In occasione della visita, il Comune di Filago organizza una settimana di eventi culturali, di condivisione e di festa nella quale si crea una buona unione tra abitanti del luogo e i giovani immigrati.
Il rapporto pacifico e gioioso creatosi tra municipalità e immigrati viene consolidato negli anni attraverso il Filafrica, festa organizzata annualmente da un gruppo di camerunensi di cui fa parte anche Alex, marito di Edy; nel 2010 l’evento ha visto realizzare la sua 4^ edizione. Dice il sindaco a riguardo: “La festa vede alternarsi serate di cucina e musica italiana a serate di folklore e tradizione camerunense in cui oltre a musica e cucina si organizza una sfilata di abiti tipici del Camerun indossati da ragazze e donne italiane! E’ un evento amato dai cittadini italiani e la loro partecipazione è altissima, sembra strano ma al Filafrica sono più numerosi loro degli immigrati”.
Il salto di qualità che rende l’esperienza di Filago così particolare è l’inclusione di Edy nel Consiglio Comunale. Il sindaco, reduce da queste positive dimostrazioni di impegno da parte degli immigrati del Camerun, ha deciso in occasione delle elezioni comunali del 2010 di includerla nella propria lista e il risultato è stato incoraggiante. Non solo lista e sindaco sono stati rieletti, ma hanno addirittura preso più voti rispetto al mandato precedente. Questo significa che i cittadini hanno scelto di dare fiducia al sindaco uscente e anche alla loro concittadina Edy!
La sfida – continua il Dott. Zonca – è portare avanti questo spirito giorno per giorno. Filago ha scelto di far parte del Coordinamento degli Enti provinciali della Bergamasca per la Pace, inoltre il Dott. Zonca per il suo impegno e i suoi ideali è stato nominato dall’UPF Ambasciatore di Pace e ora – continua il sindaco – c’è bisogno di dare dimostrazione di pace!
Secondo il Dott. Zonca l’integrazione all’interno delle problematiche sociali è un argomento di primaria attenzione, a tal propositi ci spiega che a suo avviso: “il tema dell’integrazione è estremizzato da un punto di vista politico ma se ci si impegna a risolvere le tensioni guardando la realtà da una dimensione più umana, ci si rende conto che famiglie provenienti da luoghi tanto lontani incontrano difficoltà nell’adattarsi e spesso sono piene di paure e stereotipi sul modo di vivere in Italia. Un approccio alternativo è allora quello di cercare soluzioni parlando con le persone più vicine al problema e dare responsabilità agli immigrati attivandoli in modo diretto”.
Per esempio a Filago da poco è in atto un progetto di aiuto compiti rivolto ai ragazzi delle medie e gestito dall’Associazione Camerunense dei Volontari del Progresso. L’idea di coinvolgere nel progetto gli universitari della zona come assistenti educatori è nata dal Comune, ma tutti gli aspetti organizzativi sono stati affidati all’Associazione sopra menzionata. Questo per far sì che l’idea relativa agli immigrati cambi, per diffondere nella società un’immagine dell’immigrato capace di creare valore per la comunità e non solo come persona bisognosa d’aiuto. In questo modo la coesione sociale può aumentare notevolmente!
Inizialmente i genitori dei bambini da aiutare con i compiti hanno avanzato dubbi circa un’organizzazione del genere, ma il sindaco ha spiegato loro di non giudicare l’efficacia di un’azione in base a chi la realizza ma dai risultati. Prosegue il sindaco: “superata la prima fase in cui le persone si misurano, poi il proseguimento della relazione è in discesa”.
Questa visione di pace e di apertura verso lo straniero merita di essere diffusa, specie in una provincia come Bergamo considerata – a torto – da altre provincie e regioni italiane baluardo di xenofobia e razzismo (io preferirei: fra le più critiche dal punto di vista dell’integrazione). Il Dott. Zonca ha avuto la possibilità di dimostrarlo nel mese di giugno del 2010 quando in occasione di una riunione con gli altri 21 sindaci degli altri paesi della zona dell’Isola, area della provincia di Bergamo, ha deciso di dare la parola a Edy. La riunione aveva la finalità di condividere iniziative positive e Edy ha presentato le attività portate avanti dalla Associazione CVP di cui fa parte. Alcuni sindaci da dubbiosi, si sono mostrati una volta concluso l’intervento interessati all’approccio utilizzato a Filago. Una domanda mossa al sindaco durante la riunione è stata: “Ma credi davvero che la collaborazione degli immigrati possa risolvere problemi di natura sociale?”, il Dott. Zonca ha risposto così: “Certo per problemi sociali si intende una gamma molto ampia di situazioni, ma da quando Edy è mia collaboratrice si è presa a carico quelli che coinvolgono persone francofone come lei. Per fare un esempio: c’era una ragazzina proveniente dalla Costa D’Avorio molto brava a scuola, ma il padre non voleva farla andare alle superiori per risparmiare denaro. Tramite assistente sociale si è cercato per un anno di dialogare con il padre, ma non aveva funzionato. Poi Alex, il marito di Edy ha provato a parlargli personalmente e quest’intervento di una sola giornata ha portato risultati molto più efficaci.”
A Bergamo sono molteplici gli sforzi e le attenzioni verso il tema dell’integrazione, basti pensare che presso l’Università degli Studi di Bergamo c’è una prestigiosa Cattedra Unesco dove il professor Rizzi sta portando avanti importanti studi sul fenomeno migratorio.
Tra le altre riflessioni è importante ricordare come ha fatto il sindaco di Filago che il problema dell’integrazione non riguarda solo il rapporto tra immigrati ed italiani, ma i rapporti tra immigrati che provengono da Paesi diversi. Anche questo punto dovrà essere approfondito e forse servirà proprio per rompere una dicotomia che vede italiani da una parte e tutti gli altri dall’altra. La società è composta ormai anche a Bergamo da un mosaico di etnie ed è essenziale quindi abbattere stereotipi e pregiudizi per creare sane e fruttuose collaborazioni uomo a uomo a prescindere dalla provenienza.
La stessa UPF, il Dott. Zonca e altri esponenti attivi nel campo della cooperazione decentrata si sono incontrati nel mese di febbraio del 2010 presso l’Ateneo per scambiarsi reciproche esperienze positive. Il mio augurio è che occasioni di scambio del genere continuino ad essere organizzati e al comune di Filago un incoraggiamento a proseguire su questa strada!

La visione di pace dell’associazione L’Arcobaleno:

servizi alla persona e alle famiglie per una integrazione pacifica che salvaguardi la propria specificità nel rispetto reciproco e alla scuola un supporto all’educazione interculturale per la valorizzazione delle potenzialità e delle aspettative di ognuno.


Alle porte di Bergamo, località Colognola da 15 anni è nata l’associazione di volontariato L’Arcobaleno che progetta e attua iniziative mirate all’integrazione dei cittadini non italiani all’interno della nostra società oltre ad organizzare corsi di formazione linguistica, sociale ed informatica. Per capire meglio da che bisogni è nata, quali sono le attività in cui si impegna e gli obiettivi che la guidano abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Graziella Vavassori, fondatrice e attuale Presidentessa.

Già dalle sue prime parole traspare la sincerità e la voglia di capire l’altro che caratterizzano L’Arcobaleno: “La nostra associazione sorse in modo spontaneo per rispondere al bisogno di un gruppo di donne marocchine incontrate in un negozio di quartiere 15 anni fa. Relazionarsi con il commerciante le metteva a disagio, avevano bisogno di farsi capire in una lingua a loro estranea e così pensai con alcuni collaboratori di creare una scuola di italiano per adulti del tutto gratuita”.

La scuola per adulti continua ad esistere, è totalmente gestita da volontari e oggi conta 13 classi articolate su più livelli in cui oltre alla formazione linguistica viene data un’educazione alla cittadinanza. Nel corso degli anni il numero degli iscritti è andato aumentando ed oggi conta persone provenienti da ben 58 nazioni diverse da cui L’Arcobaleno trae una grande ricchezza - prosegue la Presidentessa.



Altri servizi forniti agli adulti vanno dai corsi di informatica, a corsi di educazione stradale per migranti, corsi di formazione rivolti a insegnanti di lingua italiana per stranieri e ancora corsi di formazione per i migranti che una volta imparata la lingua vogliono a loro volta iniziare ad insegnarla.

Per quanto riguarda gli interventi de L’Arcobaleno nelle scuole, proprio dal primo gruppo di donne per cui venne creata la scuola di italiano provengono alcune delle mediatrici culturali che oggi lavorano a nome dell’associazione in molte scuole di Bergamo e provincia. Oltre ai mediatori culturali tutti di nazionalità diversa, L’Arcobaleno si avvale di educatori, facilitatori linguistici, psicopedagogisti e psicologi per un totale di 26 operatori che offrono un valido aiuto agli insegnati di scuole materne, elementari, medie e superiori. La loro presenza agevola i rapporti tra insegnanti e genitori stranieri, rende più semplice l’inserimento di bambini e ragazzi da poco immigrati e stimola la presa di coscienza da parte di tutti gli allievi stranieri e non dell’importanza di un rapporto sano e aperto con gli altri a prescindere dall’etnia di origine. Nello specifico L’Arcobaleno consegue questa finalità tramite laboratori multietnici, laboratori di relazione ed accoglienza e cineforum.



La Presidentessa ci spiega che la realizzazione di tutte queste attività è possibile grazie a diversi bandi di concorso che L’Arcobaleno ha vinto a livello comunale, provinciale e regionale e aggiunge: “Spesso la gente teme favoritismi e brogli nell’assegnazione dei finanziamenti pubblici, io invece sono molto grata alle istituzioni. Sono convinta che se i nostri progetti hanno riscosso successo e fiducia è perché si basano sui reali bisogni di bambini, adolescenti ed adulti. Attualmente è in atto una sana collaborazione con l’Assessore ai servizi sociali di Bergamo”.

L’integrazione costruita sulla conoscenza dell’altro e sul rispetto reciproco è un concetto molto caro a Graziella che aggiunge: “si può ragionare su come chiamarla ma la cosa importante dell’integrazione e che tutti si mettano in discussione. Spesso ho sentito persone spaventate considerare gli immigrati come persone che arrivano per portarci via qualcosa, ma questi pensieri sono dettati solo dalla paura e dalla mancanza di conoscenza”. Graziella prosegue dicendo che “nonostante fatiche ed ostacoli ciò che ci ha fatto continuare per tutti questi anni è un amore profondo per la persona perché bisogna rendersi conto che nonostante la provenienza diversa siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi bisogni, le stesse emozioni, ansie e amori…”. Il messaggio che L’Arcobaleno diffonde è che ognuno di noi è diverso dagli altri, italiani e non e che la diversità è una grande ricchezza per questo è molto importante rimanere se stessi.

L’Arcobaleno grazie ai volontari si occupa ormai di immigrati a 360 gradi, oltre alla scuola di italiano e alle diverse attività nelle scuole: organizza incontri a tema con personale medico, assiste e accompagna donne in gravidanza presso le strutture sanitarie… perché come ci ha ricordato Graziella: “A volte basta poco per alleviare le sofferenze degli altri, per non far sentire gli immigrati esclusi e soli e la cosa più bella è che nascono bellissime amicizie!”.

Tra le altre attività di supporto all’integrazione ricordiamo: la ricerca di abitazione e il supporto con le relative pratiche burocratiche, il reperimento di mobili e l’assistenza durante l’allestimento, consulenze per proporsi al meglio sul mercato del lavoro (bilancio competenze, compilazione curriculum, simulazione colloquio), la raccolta di vestiario, cose per la casa, giocattoli e cibo grazie alla solidarietà delle famiglie del quartiere per darle poi a chi ne ha più bisogno.

Oltre a tutto ciò L’Arcobaleno organizza momenti di aggregazione (feste, attività sportive, ecc…) per favorire la socializzazione e la reciproca conoscenza di culture e tradizioni.



In conclusione parlando del lungo e complicato processo di accoglienza, Graziella ci parla di come questo periodo di crisi abbia peggiorato le cose: “A livello generale non ho visto negli anni una trasformazione nelle modalità di accoglienza, spesso gli abitanti del Paese che accoglie gli immigrati hanno ansia e paura. Qualche anno fa c’erano però alcune possibilità in più, ora le spese per un immigrato sono ancora più alte. Spesso non ha un lavoro e la vita è costosa. La crisi ha aumentato il numero dei poveri anche tra gli italiani e questo impoverimento della società ha aumentato la paura dello straniero”.

In questo tempo di crisi L’Arcobaleno ha iniziato a prendersi cura anche di molti italiani, spesso anziani che utilizzando parte della pensione per aiutare i figli rimasti disoccupati non hanno più di che vivere. Dice in chiusura la Presidentessa de L’Arcobaleno: “La nostra missione è in modo trasversale prenderci cura delle persone senza distinzioni, lavorando contro il pregiudizio perché le persone sono persone a prescindere dalla provenienza!”.

Il messaggio che ci viene da questa nobile associazione è senza dubbio di speranza, in tempi in cui è facile avere paura, diffidare e chiudersi nel proprio piccolo io mentre invece ci vuole coraggio per partecipare e voler fare insieme. Un grazie di cuore a Graziella e a tutti quanti collaborano con L’Arcobaleno!

Quale strada per l’Italia?

Zenit, Agenzia di Stampa, analizza anch’essa il problema in una intervista di Antonio Gaspari ad Giorgio Paolucci, caporedattore di “Avvenire”. Cosa afferma Paolucci sul problema del Multicultutalismo in Italia ed Europa?


I modelli di integrazione degli immigrati adottati in Europa si stanno rivelando inadeguati. Perché?
Paolucci: Il vecchio continente è da tempo alla prese con un interrogativo di non facile soluzione: come realizzare una convivenza armonica con gli immigrati che hanno messo radici nel continente, e che spesso arrivano da terre lontane e sono portatori di diverse culture?
I modelli di integrazione finora adottati sono sostanzialmente due. L'assimilazionismo considera l'immigrato come una persona da omologare totalmente, relegando alla sfera privata anche i valori etici e religiosi. E' un'impostazione che ha trovato la sua applicazione più esplicita in Francia, coniugandosi con i principi della laicité che dagli inizi del Novecento presiedono ai rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. Questa prospettiva si è rivelata però inadeguata soprattutto nei confronti dei migranti di cultura islamica a causa della separazione tra sfera religiosa e sfera civile che essa impone. Non a caso il presidente Sarkozy è più volte intervenuto indicando una nuova prospettiva, quella della “laicità positiva”, che riconosce il ruolo che le esperienze religiose svolgono sia a livello individuale sia a livello sociale, nel quadro di valori condivisi.
Il multiculturalismo è il modello adottato in Gran Bretagna e Olanda, e muove dalla convinzione che ogni comunità etnica o religiosa debba essere libera di organizzarsi a partire dalle proprie regole e tradizioni. Questo ha portato alla formazione di “pezzi” di società parallele e autoreferenziali con rapporti forti al loro interno ma deboli col resto del Paese. La comunità (razziale, etnica, religiosa) prevale sulla persona, e tutte le comunità e le regole da esse stabilite hanno pari dignità. Alla radice del multiculturalismo sta il relativismo culturale, che genera a sua volta il relativismo giuridico, cioè il tentativo di dare legittimazione sul piano legislativo alle diversità che caratterizzano ogni minoranza. Di qui, ad esempio, la moltiplicazione in Inghilterra dei “tribunali sharaitici” che applicano la legge islamica nei contenziosi di natura familiare e che hanno generato una sorta di giurisdizione parallela alla quale ricorre un crescente numero di musulmani. Si arriva così a una giustapposizione delle identità, all'approfondimento delle divisioni di partenza anziché a una loro conciliazione in nome di qualcosa che accomuni. E', in ultima analisi, la negazione della logica dell'incontro a favore di quella di una coesistenza priva di rapporti significativi. Si favorisce la creazione di tante “riserve indiane” governate secondo logiche etnocentriche, anziché di una società aperta, interdipendente e sostenuta da valori condivisi.
Sia il modello asssimilazionista sia quello multiculturalista si sono dimostrati inadeguati nel promuovere una reale integrazione delle comunità straniere nei Paesi in cui sono stati adottati.

Non è sufficiente, dunque, l’approccio “interculturale” che oggi sembra andare per la maggiore nel nostro Paese?
Paolucci: Sarebbe irrealistico pensare che la convivenza si possa organizzare a partire da una semplice “mescolanza” delle identità, come sostengono alcuni alfieri della cosiddetta prospettiva “interculturale”. Essa richiede una condivisione pratica (non solo, quindi, la loro mera conoscenza teorica) di valori fondanti come la dignità della persona, la libertà – di pensiero, di espressione, di organizzazione, di intrapresa, ecc. -, il pluralismo, la laicità, la democrazia, la pari dignità tra l’uomo e la donna. Valori che in nessun caso sono subordinabili a quello che il politically correct definisce “rispetto della diversità” e che può diventare un pericoloso alibi per la creazione di zone franche in cui vigono codici di riferimento diversi da quelli a cui devono sottostare tutti coloro che vivono in questo Paese.

Ripreso da una più ampia intervista pubblicata da Zenit il 27 gennaio 2011 dal titolo; Immigrazione: problema o risorsa?

Multiculturalismo perde forza in Europa Quale integrazione per l’Europa?

Il multiculturalismo sembra aver perso forza in Europa, dopo che il presidente francese Nicolas Sarkozy è entrato a far parte dei dirigenti che hanno dichiarato che esso ha fallito.
"La verità è che in tutte le nostre democrazie siamo stati troppo occupati con l'identità di coloro che sono venuti da fuori e non abbastanza con l'identità del paese che li ha accolti", ha detto Sarkozy in un discorso alla televisione francese.
Le sue dichiarazioni fanno eco a quelle fatte dal leader come il Primo Ministro britannico David Cameron e il cancelliere tedesco Angela Merkel.
In tutta Europa, con un incremento dell’immigrazione nel corso degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, è cresciuta la preoccupazione per l'erosione delle identità nazionali.
I critici del multiculturalismo sostengono che la mancata integrazione degli immigrati ha portato ad una crescente minoranza che non ha un’adeguata conoscenza linguistica, non è in grado di trovare un lavoro e vengono ad aggravare il sistema dello stato sociale.
I timori che isolate comunità islamiche potrebbero produrre terroristi cresciuti nelle nostre comunità hanno alimentato il crescente sostegno a partiti di estrema destra che giocano sulla xenofobia e sentimenti anti-musulmani. L'anno scorso, un partito di estrema destra, nella Svezia tradizionalmente tollerante, è entrato in Parlamento per la prima volta dopo una campagna contro il multiculturalismo.
Il concetto di multiculturalismo sembra aver perso forza anche in paesi dove è stato molto apprezzato per molti anni.
Cameron ha criticato quello che ha definito "multiculturalismo di stato" in un discorso sull’estremismo in una conferenza ad alto livello sulla sicurezza, a Monaco di Baviera all’inizio di Febbraio.
"Non tolleriamo il razzismo nella nostra società, ad opera di bianchi, non dovremmo tollerare l'estremismo da parte di altri gruppi etnici", ha detto Cameron.
La Merkel già lo scorso ottobre (2010) ha dichiarato che il multiculturalismo in Germania era stato un fallimento totale.
Nel suo commento all’inizio di Febbraio, Sarkozy ha detto che i politici dovrebbero avere idee più chiare nell’ affrontare il tema immigrazione.
"E 'nel silenzio che gli estremisti prosperano", ha detto. "Non appena si pronuncia la parola, la gente ci accusa di essere razzisti".

Dossier sul fenomeno migratorio


Di Giorgio Gasperoni

Diritti Umani e Migranti

Il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki- moon ha parlato al Parlamento Europeo lo scorso Ottobre 2010. Il Segretario ha richiamato l’attenzione sui Diritti Umani Universali, la richiesta di lottare contro la povertà, la sensibilizzazione ai cambiamenti climatici, e l’avanzamento degli obiettivi del Millennio.
In un report di Thalif Deen, Int. Press Service, viene evidenziato che in un contesto di crescente xenofobia e tendenze anti-immigrazione in Europa Occidentale, le Nazioni Unite hanno celebrato “The International Migrants Day” (Giorno Internazionale del Migrante), nella settimana prima di Natale, chiedendo a tutti i Membri Stati di ratificare la Convenzione del 1990 che chiedeva di proteggere i migranti a livello mondiale.
L’appello del Segretario è diretto principalmente verso gli Stati Occidentali dove risiedono più di 215 milioni di immigranti, i quali hanno rifiutato di ratificare un trattato che obbliga queste nazioni a dare protezione e sicurezza ai lavoratori immigrati. “La situazione irregolare di molti immigranti non dovrebbe privarli sia della loro dignità umana che dei loro diritti”, Ha affermato Ban Ki- moon il 18 dicembre, il giorno prima del “Giorno Internazionale del Migrante”.
Il trattato che è diventato legale nel Luglio del 2003 con la firma di 20 nazioni, principalmente quelle che danno forza lavoro migrante, come l’Egitto, lo Sri Lanka, le Filippine, la Turchia, il Ghana, il Messico, l’Algeria e il Marocco. Le Nazioni occidentali hanno eluso il trattato soprattutto quelle che hanno una vasta popolazione immigrata come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e l’Italia.
Nisha Varia, esperta ricercatrice sui diritti delle donne presso HRW(Human Right Watch), ha detto che molti governi hanno peggiorato la situazione con politiche che aggravano la discriminazione o rendono difficile per gli immigranti, anche contattare le autorità per chiedere aiuto. Ha detto che le politiche di immigrazione espongono i migranti all'abuso, compreso lo sfruttamento del lavoro, la violenza, la tratta, maltrattamenti nella detenzione, e le uccisioni. Inoltre, i paesi coinvolti offrono delle risorse limitate nella ricerca di giustizia.
L'aumento della xenofobia è evidente soprattutto in Europa occidentale, anche in paesi come Francia, Italia, Germania e Svizzera, e anche negli Stati Uniti.
“Durante i periodi di difficoltà economiche”, Varia ha continuato, “le popolazioni locali possono incolpare gli immigrati di portare via lavoro, anche se essi non sono disposti a svolgere tali mansioni, e i governi devono affrontare il sentimento xenofobo che può condurre alla discriminazione e alla violenza contro gli immigrati".
Un altro aspetto importante da tenere in considerazione sono, secondo la Banca Mondiale, i flussi delle rimesse verso i paesi in via di sviluppo che è passato da 278 miliardi dollari nel 2007 a 325 miliardi dollari nel 2008. Nel 2009, però, le rimesse sono scese a 307 miliardi dollari.
Nel suo rapporto, HRW sottolinea che molti paesi si basano sui lavoratori immigranti per colmare carenze di manodopera in lavori a bassa retribuzione, pericolosi e scarsamente regolamentati. L'organizzazione per i diritti umani ha inoltre documentato lo sfruttamento del lavoro e gli ostacoli al risarcimento per gli immigranti in agricoltura, lavoro domestico, e l’edilizia in nazioni come Indonesia, Malesia, Kazakistan, Kuwait, Libano, Arabia Saudita, Tailandia, Emirati Arabi Uniti, e Stati Uniti.
Uno studio pubblicato all'inizio di quest'anno dall’University College di Londra ha dimostrato che i nuovi arrivati dall'Europa dell'Est hanno pagato il 37 per cento in più tasse di quanto hanno ricevuto in benefici e servizi pubblici nel 2008-09. Gli immigranti hanno contribuito molto di più in termini di fornire importanti servizi pubblici come medici, infermieri o addetti alle pulizie nel Servizio Sanitario Nazionale.
Questi studi mettono in rilievo che dal livello parlamentare, alla gente della strada, o discussioni al bar o a cena, ci sono accesi dibattiti circa l'impatto degli immigranti sull’identità nazionale, sulla sicurezza, l'occupazione, la sanità e la previdenza sociale - tutte quelle cose che compongono il tessuto di una società.
Purtroppo, molte di queste discussioni sono basate su emozioni e miti e non sulla realtà sociale ed economica. La migrazione ora e in futuro sarà guidata dalle tendenze economiche mondiali, sociali e demografiche e questo fatto non può più essere ignorato.
Una delle ragioni di questo forte aumento sarà il calo della popolazione nei paesi industrializzati del mondo, un calo previsto di quasi il 25 per cento entro il 2050, in accordo alle ricerche. Questo aumenterà in modo significativo la domanda di lavoratori immigranti in un momento in cui la forza lavoro nei paesi in via di sviluppo aumenterà da 2,4 miliardi nel 2005 a 3,6 miliardi nel 2040.

Giustizia economica


FINCHE’ UNA SOCIETA’ TOLLERA GRANDI DISPARITA’ nel tenore di vita tra ricchi e poveri, non può essere considerata una società giusta. Tali disparità indeboliscono i legami di solidarietà tra i cittadini, e generano distinzioni di classe e i pregiudizi che si accompagnano. Inoltre, la pari opportunità e la giustizia secondo la legge è una finzione in una società dove il ricco ha tutti i vantaggi sul povero. I visionari di ogni tempo hanno ricercato la democrazia economica per accompagnare la democrazia politica. Socialismi di vario tipo sono sorti in risposta a questo desiderio perenne della mente originale. La giustizia economica comincia con il comandamento di non rubare. I ladri non sono soltanto quelli che rubano alle altre persone, ma anche, e più pericolosamente, quelli in una posizione di autorità che derubano dal trogolo pubblico.
Questo porta alla questione di ciò che è 'pubblico' e ciò che è 'privato'. Dio creò la terra, con la sua aria, acqua e le risorse minerarie, e in Israele biblico, tutta la terra apparteneva a Dio insieme al popolo, come i suoi custodi.
Questo punto di vista scritturale sfida il concetto capitalista di proprietà privata, e suggerisce che proprio un sistema economico dovrebbe implicare una qualche nozione di proprietà comune.
Alcune riflessioni extrapolate da discorsi di Sun Myung Moon, Fondatore della Universal Peace Federation
Inoltre, dal punto di vista di Dio, tutte le persone sono membri di una famiglia. Come, allora, può il ricco dormire con una coscienza tranquilla, mentre alcuni dei suoi fratelli e sorelle soffrono la fame? I primi cristiani tenevano tutte le proprietà in comune, una tradizione che ha persistito negli esperimenti utopistici socialisti fino ad oggi. La chiave per un socialismo di successo, secondo Rev. Moon, è l'amore di Dio, che è la fonte dell'impulso verso un amore fraterno e benevolo. Può spingere i ricchi a condividere le loro benedizioni, creando un ciclo virtuoso del dare.
Il comunismo, d'altra parte, ha cercato di istituzionalizzare la proprietà comune attraverso un meccanismo di stato che ha preso ai ricchi per distribuire ai poveri. Si è utilizzato il risentimento del proletariato per giustificare ciò che si stava essenzialmente rubando, il tutto eseguito con grande brutalità. Si è adottata questa strategia spregevole, secondo il Rev Moon, a causa del suo ateismo e dell’ostilità nei confronti della religione.
Invece di guardare allo stato per correggere gli squilibri economici, possiamo guardare a noi stessi. Noi possiamo cessare di lottare solo per il nostro profitto individuale e invece riconoscerci come fratelli e sorelle, membri della famiglia di Dio. Poi, proprio come una famiglia i membri ripartiscono profitti e spese al momento del loro budget mensile, la gente di ogni villaggio o del quartiere potrebbe incontrarsi regolarmente e volontariamente suddividere il reddito e
le spese di partecipazione per promuovere la correttezza e l'uguaglianza. Per lo stesso motivo, i datori di lavoro e proprietari di fabbriche dovrebbero pagare ai loro lavoratori un salario dignitoso, non solo per incoraggiare la loro industria, ma anche a riguardo del loro valore come
esseri umani. Allo stesso modo, nella famiglia delle nazioni, i paesi ricchi offrirebbero volontariamente aiuti e assistenza tecnologica per le nazioni in via di sviluppo, con l'obiettivo che tutte le persone sul pianeta avrebbero standard di vita equivalenti. A supporto di questo, dovremmo promuovere una cultura che onori le persone di più per il loro altruismo che per le loro
ricchezze. Il rev. Moon immagina questo come un modo pratico per realizzare la giustizia economica.
Insegnamenti di Sun Myung Moon
La religione insegna alle persone a negare e respingere tutto ciò che il nostro corpo desidera. Il nostro corpo ci dice di rubare il cibo quando abbiamo fame, ma il Cielo ci insegna sempre a dire "No" a tale impulso. (131:25, 11 Mar 1984)
… Cosa c'è di sbagliato nel rubare? Quello che rubi è il risultato del sacrificio e del merito di qualcuno; quindi ha valore pubblico. Quando lo si prende senza pagare nulla per esso, si nega quel pubblico valore. Questo è un peccato. (105:92-92, 30 settembre 1979)

La Cittadinanza Mondiale



IL MONDO SEMBRA CHE SI STIA MUOVENDO INESORABILMENTE verso l'unità, ma le forze centrifughe minacciano di farla saltare in aria. Tendenze verso la globalizzazione delle comunicazioni, istruzione, trasporti e commercio stanno legando le nazioni insieme in una rete interdipendente di reciproco vantaggio. Tuttavia, il cammino verso l'unità del mondo non può essere forgiato solo sulla base degli scambi. Finché l'ordine del giorno mondiale è dettato dai poteri economici dominanti, ci saranno popoli del mondo in via di sviluppo che sentono il colosso della globalizzazione come una minaccia mortale. I popoli orgogliosi con una storia gloriosa cercheranno strade alternative per affermare il loro posto d’onore - l'ascesa dell’Islamismo ne è un esempio. Di conseguenza, l'economia non possiede la chiave per l'unità del mondo. Quella chiave, elemento centrale, è la religione. Certo, gli insegnamenti religiosi possono creare divisioni. Eppure, ogni religione contiene insegnamenti che elevano l'ideale di unità mondiale, radicata in Dio che è il Genitore di tutta l'umanità. Dio vede tutti gli esseri umani come Suoi figli; quindi il mondo è destinato ad essere una sola famiglia. Gli insegnamenti religiosi demarcano il percorso per rendere questa unità una realtà, per esempio la promozione del matrimonio internazionale, interrazziale e interreligioso da parte del Rev. Moon.

Alcune riflessioni extrapolate da discorsi di Sun Myung Moon, Fondatore della Universal Peace Federation
Ognuno aspira a vivere in un mondo unificato che trascende la nazionalità. Questo desiderio nasce dalla profondità del cuore. Viene fuori a gran voce dall’ideale e dal cuore dei veri esseri umani. E’ anche il cuore e la speranza di Dio. (115:177, 10 novembre 1981)

Dobbiamo superare il nazionalismo. Un popolo dovrebbe far emergere quei cuori che trascendono lealtà etniche, che amano gli altri popoli più del loro stesso popolo. (34:337 20 settembre 1970)

Da questo momento in poi, la definizione di "mio paese" avrà bisogno di essere ampliata. Anche se tutti hanno il loro paese di origine in cui sono nati e vivono, in un senso più ampio, il mondo intero che Dio, il nostro Padre, ha creato è "il mio paese." (219:121, 28 agosto 1991).

Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Inaugurano la Settimana Mondiale dell’Armonia Interreligiosa


A/65/L.5 - 15 ottobre 2010


Sessantacinquesima sessione
Punto 15 del programma
Cultura di pace

Risoluzione (traccia) presentata da: Azerbaijan, Bahrain, Giordania, Oman, Arabia Saudita e Turchia

Settimana Mondiale dell’Armonia Interreligiosa

L’Assemblea Generale,

facendo riferimento alle risoluzioni 53/243 del 13 settembre 1999 sulla dichiarazione e la programmazione di azioni relative a una cultura di pace, 57/6 del 4 novembre 2002 concernenti la promozione di una cultura di pace e non-violenza, 58/128 del 19 dicembre 2003 sulla promozione della comprensione, dell’armonia e della cooperazione religiosa e culturale, 60/4 del 20 novembre 2009 sull’Alleanza fra le Civiltà, 64/81 del 7 dicembre 2009 sulla promozione del dialogo, della comprensione, dell’armonia e della cooperazione interreligiosa e interculturale per la pace e 64/164 del 18 dicembre 2009 sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione sulla base del credo o della religione,

Riconoscendo il bisogno imperativo di dialogo fra le diverse fedi e religioni per promuovere la comprensione, l’armonia e la collaborazione reciproca fra i popoli,

Richiamandosi, apprezzandole, alle varie iniziative globali, regionali o sub-regionali sulla comprensione reciproca e sull’armonia interreligiosa, compresi il Forum Tripartito sulla Cooperazione Interreligiosa per la Pace e l’iniziativa “Una Parola Comune”,

Riconoscendo che l’imperativo morale di tutte le religioni, convinzioni e credi fa appello alla pace, alla tolleranza e alla comprensione reciproca

1. Riafferma che la comprensione reciproca e il dialogo interreligioso costituiscono dimensioni importanti di una cultura di pace;
2. Proclama la prima settimana del mese di febbraio di ogni anno “Settimana Mondiale dell’Armonia fra tutte le Religioni, Fedi e Credi”;
3. Incoraggia tutti gli Stati a sostenere, su base volontaria, la diffusione del messaggio di armonia interreligiosa e di buona volontà in tutte le chiese, moschee, sinagoghe, templi e altri luoghi di culto durante quella settimana, basati sull’amore per Dio e per il prossimo, o sull’amore per il bene e per il prossimo, secondo le proprie tradizioni o convinzioni religiose;
4. Richiede al Segretario Generale di tenere informata l’Assemblea Generale sull’attuazione della presente risoluzione.


10-58725 (E) 181010

L’importanza delle Istituzioni:

Quale relazione esiste in una Società tra Religione, Politica e Scienza?

Di Giorgio Gasperoni

In questo articolo vogliamo esaminare brevemente il ruolo che hanno religione, politica, scienza e come possono contribuire - in questo particolare momento, quando sembra che la nostra società abbia perso il bandolo della matassa - alla creazione, mantenimento e miglioramento della società. Si analizzerà perché rivestono diverse, anche se contemporaneamente essenziali, funzioni. La religione crea l'unità della società, la politica crea la giustizia della società, e la scienza crea la verità della società.
Ogni società è la creazione di molte istituzioni, individuali, e di modelli simbolici. Questa unità è vissuta come un vincolo comune, che consente ai membri della società di avere una base comune. Questa identificazione non è, in linea di principio, la conoscenza immediata e l'amore degli uni per gli altri. Si tratta, piuttosto, del riconoscimento comune che identifica tutti con qualcosa che li trascende. In virtù della loro comune appartenenza o amore, per questa realtà superiore che tutti identificano, i membri della società confermano la loro unione con gli altri.
Questo riconoscimento che la società è un’unità mediata, tramite comportamenti sociali e articolata attraverso simboli, si può definire una società con una visione di "religione civile". Che ogni società abbia una propria religione (cioè, qualcosa che lega la sua gente insieme) è un luogo comune della sociologia contemporanea.
Dal punto di vista sociale e funzionale, anche una società atea ha una religione civile, perché questo termine si riferisce semplicemente ai valori, riti e simboli che regolano le relazioni fra la gente in ogni società e stabilisce il senso di unità. Da questo punto di vista funzionale, il simbolo dell'unità di una società è il concetto di “Dio”. La domanda importante, quindi, non è se una società chiama il suo concetto di Dio "Dio" o se lo chiama con un altro nome. La controversia Teismo vs Ateismo è irrilevante dal punto di vista funzionale di quella società.
Ciò che è importante rilevare, è se i valori di una società sono universali ed inclusivi, o se sono soggettivi ed esclusivi. Se una società ha valori esclusivi, quindi l'identificazione dei suoi membri richiede la loro non identificazione con persone al di fuori del loro gruppo. In questa situazione, guerra e concorrenza con gli altri possono essere visti come essenziali per l'identità e l'esistenza di una società. Il nazionalismo moderno, che afferma che un particolare stato-nazione è l’obiettivo a cui far riferimento per la propria lealtà, è una religione civile non universale. Per questo motivo, il nazionalismo moderno vive di guerra e concorrenza economica.
Il mondo ha bisogno di valori universali condivisi, in modo che tutte le persone siano in grado di identificarsi come parte di un’unica famiglia umana. Una società mondiale potrebbe mitigare la concorrenza e la guerra tra gruppi sociali e fornire un quadro di riferimento per risolvere i conflitti in maniera giusta.
In conclusione, il contributo dei valori religiosi alla società è quello di creare la sua unità, la società non si basa su rapporti immediati, ma su una identificazione condivisa e mediata con qualcosa di più elevato, questa identificazione condivisa dovrebbe essere universale, piuttosto che non universale; tale identificazione può essere universale, senza rappresentare una minaccia per l'integrità di gruppi particolari, solo se si tratta di una identificazione con valori universali condivisi.
La religione non è la politica. La politica ha il suo compito speciale. La responsabilità della politica è quella di creare la giustizia della società.
La giustizia non è la stessa cosa dell’unità. Nella tradizionale teoria sociale cristiana, questo è riconosciuto, distinguendo la giustizia dall’amore. Limitarsi a dire che ci amiamo l’un l’altro e riconoscere che siamo tutti fratelli, non risolve i problemi del mondo. Il problema è che, anche dove le persone si amano, il loro amore non indica in modo specifico come agire.
La giustizia si occupa di come interagire nelle relazioni. Dovunque ci sia una società, c'è un bisogno di giustizia. Dal momento che una società non è solo un’unità, ma un'unità di molti individui, istituzioni, e obiettivi, è necessario che il bene di tutte queste parti della società sia ordinato e mantenuto. Il bene di tutti questi componenti della società può essere concepito solo come un loro bene nel rispetto di quello degli altri.
Bilanciare il bene di ogni parte della società in relazione al bene della altre parti della società è giustizia. La giustizia è un confronto, bilanciamento e armonizzazione delle diverse rivendicazioni in relazione degli uni verso gli altri e viceversa, per mantenere una giusta unità della società. La creazione della giustizia nella società è soprattutto il compito della politica.
Il compito della politica è minacciato sia dall’individualismo antireligioso sia da un comunitarismo iper-religioso. Una società molto individualista, come gli Stati Uniti, non riesce a dare adeguato riconoscimento a questa esperienza di unità, che la preoccupazione della politica per la giustizia presuppone. (Da qui, negli Stati Uniti, ci si preoccupa troppo per i diritti individuali e non abbastanza per la giustizia sociale.) D'altro canto, l'enfasi esagerata sulla religione e il principio di unità ("amore") può portare alla svalutazione della giustizia. In ogni società l'amore e la giustizia devono essere distinti. Perciò, la religione e la politica devono dare il loro contributo in maniera distinta, entrambe necessarie, al bene sociale.
Ora, che cos’è la giustizia? La prima cosa da dire è che la giustizia non è una sola cosa. Ci sono diversi tipi di giustizia, e l'osservanza di ogni tipo di giustizia è altrettanto necessaria.Vi può essere una politica razionalistica che riduce la giustizia della società ad un tipo di giustizia, e in tal modo non presta attenzione a molte altre richieste di giustizia. Ad esempio, vi è una democrazia totalitaria, che riduce ogni giustizia alla parità (una sorta di giustizia) e non ascolta le giuste pretese di eccellenza e di ordine. La giustizia richiede, pertanto, che vi sia un giusto bilanciamento e armonizzazione dei diversi livelli di giuste richieste.
Questi diversi livelli di giustizia non sono racchiusi sotto un unico modello razionale. Ogni livello di giustizia ha un proprio valore sociale. I conflitti tra i vari livelli di giustizia non possono essere risolti razionalmente dalla scienza. Il conflitto tra le diverse esigenze richiede un’armonizzazione, o compromesso, attraverso un atto politico. La politica, dunque, è un'arte. Il tentativo di far passare la politica come scientifica evidenzia un malinteso che tutte le giuste richieste possono essere racchiuse in un unico genere.
In conclusione, i compiti della religione e della politica sono diversi, la prima crea l'unità sociale, la seconda la giustizia sociale. Ci sono diversi tipi di giustizia e, quindi, la politica non è una scienza, ma un'arte, un’attività pratica che mira a bilanciare molti tipi di richieste; la sua funzione essenziale è quella di creare una maggiore armonia sociale e cooperazione; piuttosto che limitarsi a reprimere il male, la politica sarà sempre necessaria anche in un mondo giusto.
La scienza mantiene e aumenta la libertà umana. Il contributo della scienza alla società è quello di aumentare la libertà umana. Ma che cos'è la libertà? La libertà è la capacità di poter controllare la propria situazione futura o effettivamente influenzare il mondo in modo che le cose si muovano in accordo con i propri desideri. La libertà non è una mera spontaneità del volere, o semplice voglia di ciò che si vuole. La libertà è piuttosto la capacità di agire in modo tale che si può controllare il proprio futuro. La libertà è la capacità dell'uomo di controllare il suo futuro attraverso la sua attività. Ha un carattere oggettivo e non soggettivo.
Una vera scienza cerca di aumentare la libertà umana, cioè, perfezionare la nostra capacità di controllare la nostra situazione futura, le attività della scienza servono per aumentare la nostra conoscenza delle implicazioni e delle conseguenze dei nostri atti, una scienza che non tiene questi due compiti in equilibrio, non solo non aumenta la libertà umana, ma può effettivamente ridurre la libertà umana, creando un mondo sempre più irrazionale. La scienza deve riscoprire il suo scopo morale e istituzionalmente ristrutturarsi in modo da servire a tale scopo.
Fino a questo punto, la discussione si è incentrata sul contributo essenziale della religione, della politica e della scienza alla società, ma non sulla loro relazione reciproca. L'argomento fin qui trattato implica chiaramente che non solo la società ha bisogno del beneficio di tutte e tre ma che ognunadi esse ha bisogno delle altre due. Pertanto, nessuna di queste tre dovrebbe essere ridotta a uno strumento degli altri. Quando, ad esempio, la religione si confonde con la politica o la politica con la scienza, non solo è la società ad essere danneggiata, ma queste tre istituzioni vengono distorte. Ad esempio, la scienza diventa politicizzata o la religione diventa nazionalista.
Abbiamo considerato le conseguenze sociali della riduzione della scienza o della politica o della religione a qualcosa d’altro da sé. Ciascuna di queste istituzioni ha un proprio contributo da dare alla società, e quindi ognuna deve rispettare l'integrità e il diritto delle altre istituzioni a svolgere il proprio ruolo corretto. Naturalmente, la società è un sistema, e queste attività istituzionali devono essere coordinate, ma sono tutte ugualmente essenziali e devono essere tutte rispettate e mantenute. Inoltre, le altre istituzioni, soprattutto la famiglia, l’economia, le arti, i mezzi di comunicazione - hanno i loro importanti contributi, e altrettanto significativi, da dare alla società. I principi sopra elencati si applicano anche a loro. Anche se non abbiamo esaminato altre sfere istituzionali non significa che non siano altrettanto importanti.