1 giugno 2010

La società della finzione

Una società si alimenta, non tanto dalle azioni in sé, quanto dalle motivazioni che le producono, degli intenti nobili o ignobili. Per questo la nostra cultura rischia di morire.

di Giuseppe Calì
Uno degli argomenti sicuramente più dibattuto e non solo ultimamente, è quello dei diritti umani. È comunque una riflessione che come “Universal Peace Federation” affrontiamo in profondità ed attenzione. Una società giusta deve tenere conto delle istanze di chiunque e fornire risposte equilibrate, per il bene individuale e complessivo.
Confesso che, pur essendo cosciente del valore delle discussioni in atto un po’ dovunque, mi trovo a disagio. Indagando sulle cause di questa mia perplessità, scopro che in effetti ciò che mi blocca è la consapevolezza della mancanza dei presupposti giusti all’affermazione dei diritti, come comunemente intesi. Vale a dire, che tanto se ne parla, quanto non se ne riesce a venirne a capo.
Presupposto per il diritto, è la responsabilità e presupposto per la responsabilità è la verità. Senza conoscenza non può esserci consapevolezza e quindi libertà e responsabilità.
Come parlare quindi di diritti umani? Fintanto che non chiariamo cosa intendiamo per “diritti” e quale concezione abbiamo dell’ “uomo”, è molto difficile persino identificare chiaramente le tante violazioni che avvengono spesso sotto i nostri stessi occhi e nelle nostre stesse società libere. È molto facile parlare di violazioni in Cina, a Cuba, in Corea del Nord o in altri paesi dittatoriali, dove gli avvenimenti assumono dimensioni macroscopiche, ma non è altrettanto facile identificare il grado di libertà delle nostre società cosiddette “libere”. E vado subito al dunque.
La nostra società si è trasformata in un grande “reality show”, anche se in questa definizione molto diffusa si mettono insieme due termini palesemente in contraddizione tra di loro: una cosa, o è “reality” o è “show”. Così, per schivare il paradosso l’abbiamo definita: “società mediatica”, cercando di dare dignità culturale ad un fenomeno che invece ci priva di dignità, mettendo in piazza quasi inesorabilmente, spettacolarizzandoli, gli aspetti peggiori dell’animo umano.
Il Papa, nel discorso di conclusione al convegno per i giornalisti cattolici, il 7 ottobre 2010, dice testualmente: “Oggi, ad esempio, nella comunicazione ha un peso sempre maggiore il mondo dell'immagine con lo sviluppo di sempre nuove tecnologie; ma se da una parte tutto ciò comporta indubbi aspetti positivi, dall'altra l'immagine può anche diventare indipendente dal reale, può dare vita ad un mondo virtuale, con varie conseguenze, la prima delle quali è il rischio dell'indifferenza nei confronti del vero. Infatti, le nuove tecnologie, assieme ai progressi che portano, possono rendere interscambiabili il vero e il falso, possono indurre a confondere il reale con il virtuale. Inoltre, la ripresa di un evento, lieto o triste, può essere consumata come spettacolo e non come occasione di riflessione. La ricerca delle vie per un'autentica promozione dell'uomo passa allora in secondo piano, perché l'evento viene presentato principalmente per suscitare emozioni. Questi aspetti suonano come campanello d'allarme: invitano a considerare il pericolo che il virtuale allontani dalla realtà e non stimoli alla ricerca del vero, della verità”.
Non c’è un’area nella quale non siamo costretti a sorbirci dosi industriali di insincerità. Colpisce al cuore la finzione perpetrata quotidianamente, da autentici mostri, che fingono dolore, per crimini commessi da loro stessi. Il caso recente dello zio di Sara Scazzi, non fa altro che ripetere lo stesso cerimoniale di tanti altri eventi che hanno coinvolto persino ragazzi giovanissimi autori di cose atroci ed impensabili, salvo poi presentarsi al pubblico, anzi agli spettatori, con le vesti candide delle colombe. Con quale disinvoltura fingono commozione, sgomento, mentre uccidono e violentano persino i propri cari?!
Nello sport, calciatori che si tuffano per ingannare arbitro, pubblico ed avversari, i quali poi fingono di indignarsi visto che prima o poi faranno esattamente la stessa cosa quando l’occasione si presenterà. Giornalisti che fingono di dire la verità mirando soltanto, nel migliore dei casi a vendere sensazioni a caro prezzo, mentre somministrano veleno. Magistrati che fingono di amministrare giustizia, mentre si incaricano in realtà di servire l'una o l’altra fazione. Politici che fingono di combattere per la giusta causa, mentre nascondono le battaglie di potere che motivano il loro impegno. Professori che fingono di insegnare e studenti che fingono di imparare. Poveri che si fingono ricchi e ricchi che si fingono poveri. Religioni che fingono di dialogare, mentre preparano i tamburi di guerra. Il mondo dei lupi travestiti da agnelli e degli agnelli travestiti da lupi.
Vuol dire che non esistono atleti, politici, magistrati, religiosi, giornalisti e comunque cittadini, onesti? Assolutamente no, ma la loro presenza si perde nel marasma mediatico, che tutto ingloba, tutto copre e tutto trasforma. È il Grande Show, che sarebbe anche attraente ed intrattenente, se non fosse che ci priva di un diritto fondamentale: il diritto alla libertà di coscienza che può esistere soltanto in presenza di verità.
Come abbiamo fatto ad imparare a recitare così bene? Quando si finge ci si nasconde: si nascondono le proprie paure, insicurezze, sconfitte e frustrazioni. Una volta era fuga da sé stessi, ora è qualcosa di più: è violenza, secondo un'assurda e controproducente logica di sopravvivenza che ottiene esattamente l’effetto contrario. Mentre fingiamo moriamo dentro, una parte di noi si spegne. Non possiamo fingere a noi stessi, alla nostra coscienza, che infine si rifiuta di partecipare e crea i suoi anticorpi. Nasce una depressione sottile, strisciante, camuffata, da divertimento senza gioia, da conoscenza senza cultura, da trionfalismo senza vittoria, da amore senza sentimento e sentimento senza amore. Assistiamo impotenti al crollo della bellezza umana, delle sue vere capacità creative: campioni che improvvisamente diventano nullità, saggi che si trasformano in falsi profeti, artisti geniali che si riducono a giullari di qualche corte politica. Ogni volta che uno sportivo usa un inganno per vincere, la passione sportiva muore, esattamente come accade per l’amore tra amanti che si tradiscono, così come muoiono pian piano, ma inesorabilmente, la dignità della persona e l’autostima, fonte della forza di carattere e della vera affermazione del sé. Ogni volta che un politico usa l’arte della retorica e si appella “al popolo”, per convincerlo di cose che lui stesso non crede, solo per colpire l’avversario, è la Politica stessa a morire. Una società si alimenta, non tanto dalle azioni in sé, quanto dalle motivazioni che le producono, degli intenti nobili o ignobili. Per questo la nostra cultura rischia di morire.
In questo gioco perverso nessuno si salva: né noi né il nostro prossimo, ne le vittime, né i carnefici della verità, in una sorta di globalizzazione della finzione. Dall’est all’ovest, dal Cristianesimo all’Islam, dai paesi sviluppati a quelli poveri, ognuno secondo le proprie modalità e le proprie ritualità sociali, in una sorta di massacro globale delle coscienze. Nessuno è immune e tutto e tutti sono sacrificabili in nome del relativismo: “The show must go on”. Guai a chi non si sottomette alla logica del grande “set”. Chi cerca semplicemente di essere sincero viene preso per “non credibile”, per “estremo” ed in effetti lo è perché confinato ai margini dell’impegno pubblico, fuori dallo show business.
È la scena di un dramma esistenziale dal quale è difficilissimo uscire e nello stesso tempo non si ha speranza di esserne veramente protagonisti, condannati a recitare comunque tutti da comparse, perché la protagonista vera è la finzione stessa. Ad un individuo sono lasciate poche scelte: isolarsi dalla vita pubblica e vivere per sé stessi, o entrare nell’arena a rischio costante “di eliminazione”, come appunto nei “reality show”. Pochi sono rimasti gli ambiti, gli spazi di tregua temporanea, nei quali cercare di recuperare almeno un po’ di credibilità verso sé stessi.
Cosa ci rimane, se non vogliamo rassegnarci? Una grande sete di sincerità. Ma non di quella sincerità finta che camuffa l’odio, il risentimento e le proprie frustrazioni e gelosie, il “ti dico quello che penso”, quando invece ti dico tutto quello che ti può fare più male. Io ho sempre pensato che ciò che diciamo, prima di tutto, identifica noi stessi, più che la realtà altrui. “Non è ciò che entra dalla bocca che contamina l’uomo, ma ciò che ne esce… le cose che escono dalla bocca procedono dal cuore; sono esse che contaminano l'uomo. Poiché dal cuore provengono pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazione, furti, false testimonianze, maldicenze”, disse il più grande uomo di verità.
La sincerità vera è quella che si nutre di verità a qualsiasi costo, anche contro se stessi. Quella che crea spazi di libertà piuttosto che chiudere in catacombe di artificialità. Quella che esiste per il bene supremo, il bene comune di Dio e degli uomini. Quella che serve il prossimo con umiltà e restituisce dignità ed onore all’uomo ed alla donna, ai genitori ed ai figli, a chi governa ed è governato, a chi amministra e a chi è amministrato, nel tentativo di arrivare a comprendere che abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma per come siamo veramente. Quella infine che riunisce persone vere a persone vere, portandole a mettere le proprie differenze al servizio della comunità. Abbiamo bisogno di sublimare la nostra essenza piuttosto che annegarla nel mare dell’inconsistenza. È da questo anelito che può nascere un nuovo modo di vivere ed una nuova società.
In conclusione, voglio proporre l’affermazione di un diritto umano alternativo, antico e nuovo nello stesso tempo: il diritto alla sincerità, ad essere se stessi ed all’evoluzione vera, che consiste nell’emancipazione dalla menzogna e dalla finzione. Forse, in questo modo, anche gli altri diritti dell’uomo potranno trovare quel terreno fertile che fino ad ora ha scarseggiato, incluso il diritto alla felicità.

BIMBO AFRICANO di Renato Piccioni

Urla la tua disperazione,
bimbo africano.
Lavano il tuo volto
lacrime di dolore.
Urla al mondo,
cieco e sordo, la tua fame.

Il tuo addome gonfio
del nulla,
la tua povera pelle tesa,
veste le tue tenere ossa.
I tuoi occhi,
sono aperti su un mondo
che non merita il tuo sguardo.

A te, tutto è negato.
La tua famiglia massacrata
dai signori della guerra,
e tu, che hai fame e sete
e non capisci
il perché
dell’atrocità dell’abbandono.
Sei un dono della creazione,
speranza di futuro,
ma quale futuro
se tutto ti è negato ?

Ti sarò compagno nel pianto,
e urlerò con te il tuo dolore
che diventa anche mio,
perché sono impotente
a cambiare il mondo,
e allora
ti riscalderò del mio amore
fin quando vita avrai,
per chiederti di perdonarmi.

“Tutti per uno”

La staffetta è davvero una gara speciale, non è come quando corri i tuoi cento metri, dai tutto te stesso e alla fine, o vinci o perdi.

di Roberta Selan
Cinque rintocchi precisi e severi del grande orologio a pendolo: nonno James prese in mano la sua tazza di tè fumante e cominciò a sorseggiare lentamente, con lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso. A quell’ora di tutti i pomeriggi era solito fermarsi in salotto per il classico spuntino e per la solita occhiata ai quotidiani del giorno, ma sapeva che non avrebbe potuto farlo ancora per molto: questione di pochi minuti e i suoi due nipotini sarebbero rincasati da scuola, sarebbero entrati con un gran fracasso da quella porta e una volta di più gli avrebbero chiesto di raccontare o di ascoltare chissà quale avventura. Lui aspettava sempre con ansia quel momento della giornata, quei bambini erano la sua gioia, il suo sorriso, il futuro della sua famiglia: semplicemente li adorava. Eccoli finalmente! Le braccia al collo, un bacio grande e, come sempre, un fiume di parole, di esclamazioni, di “sai che” e di “perché?”. Dopo la solita merenda divorata in trenta secondi, Steven gli si sedette accanto, sul divano. “Nonno, oggi a scuola abbiamo parlato di come sono nate le Olimpiadi, nell’antica Grecia… Io ho raccontato a tutti che tu hai una medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi: sai che non volevano crederci?”. James si fece una risata sotto i baffi, scapigliando amorevolmente il nipote con una mano. “…È passato un sacco di tempo, quarantaquattro anni, per l’esattezza…!”. Davvero era passata una vita da quel lontano trionfo, eppure James ci pensava spesso come ad una delle pagine più belle ed importanti della sua giovinezza, e lo faceva con immenso orgoglio. “Nonno, mi fai vedere la medaglia un’altra volta?”. E già, non era la prima volta che Steven gli faceva tirar fuori dal cassetto quella grande patacca d’oro; anche se era piccolo, era già un grande appassionato di sport, a scuola aveva già più volte messo in mostra la sua spiccata predilezione per la corsa veloce, e quindi nel nonno vedeva una specie di eroe, uno da tenere come esempio vivente dei traguardi che si possono raggiungere, un campione da emulare. James ritirò fuori con grande piacere il cimelio dall’elegante custodia in velluto rosso: ogni volta che toccava quella medaglia provava un’emozione tutta speciale, restava a guardarla in silenzio, con la stessa tenerezza con cui un padre guarda la sua creatura… “Nonno, ti va di raccontarmi come l’hai vinta? Così poi lo dico ai miei compagni di scuola e loro la finiscono di dirmi che non è vero…”. James sospirò, sorrise al nipote e poi, rassegnato, si mise più comodo sul divano e chiuse gli occhi, quasi a voler ricordare meglio.
“Io allora ero veloce, ma non abbastanza per essere un titolare della Nazionale nelle gare internazionali che contavano davvero; ero considerato una riserva, ma a me bastava: sapevo che prima o poi avrei avuto la mia occasione per dimostrare il mio valore in pista. In verità partii per quelle Olimpiadi senza grandi speranze per poter scendere in pista; la mia gara erano i “cento” e i “duecento” piani, ma davanti in lista ne avevo molti, più forti e meritevoli di me. Poi, non si sa bene perché, l’allenatore mi chiese invece se me la sentivo di correre in terza frazione nella staffetta “quattro per cento”; non ero abbastanza allenato nei passaggi di testimone, ma accettai ugualmente: quando mi sarebbe capitata di nuovo un’occasione così? In batteria andò tutto benone, e in semifinale ancora meglio: ci qualificammo per la finalissima con un ottimo tempo, ricevendo i complimenti da parte di tutti. La finale poi fu a dir poco entusiasmante: vincemmo per un soffio, ma fu un trionfo meritato, guadagnato mettendo in campo il meglio di noi stessi e sbaragliando sul filo di lana le migliori squadre del mondo. Quando salimmo sul gradino più alto del podio e ci misero la medaglia d’oro al collo, mi sentii la persona più felice della terra… La bandiera saliva lentamente, l’inno nazionale rimbombava forte fuori dagli altoparlanti dello stadio e io avevo voglia di cantarlo, ma la voce non mi usciva proprio: ero troppo emozionato, era tutto così bello!”. “Ma nonno, non pensi che sarebbe stato più bello vincere l’oro da solo? Così non è tutto tuo, avete corso in quattro…!” osservò Adam, il nipote più grande, che nel frattempo si era avvicinato al fratello, incuriosito da quel racconto. James ci pensò su un attimo, per poi rispondere al ragazzino con grande convinzione. “No, niente affatto. Prima di tutto ognuno di noi ha avuto la sua di medaglia, uguale nel metallo, nella scritta, nel valore, in quello che ha significato per noi e per la nazione che abbiamo rappresentato. Poi, la staffetta è davvero una gara speciale, non è come quando corri i tuoi cento metri, dai tutto te stesso e alla fine, o vinci o perdi; in una staffetta tu corri per te ma anche per i tuoi compagni, se tu vai male precludi anche agli altri la possibilità di una vittoria finale, e viceversa: è un fantastico gioco di squadra in cui tutto deve andare alla perfezione se vuoi ottenere un risultato, ci deve essere una buona partenza del primo, ognuno deve per forza correre al limite delle sue possibilità, ci devono essere dei cambi perfetti, ci vuole anche una buona dose di fortuna per non perdere il testimone per strada o non invadere la corsia avversaria. Abbiamo vinto quell’oro insieme perché ciascuno ha fatto la sua parte, magari se io o un altro non ci fossimo stati e qualcun altro avesse corso al nostro posto, la squadra non avrebbe ottenuto lo stesso prestigioso risultato…”. “Che forte! È come per i moschettieri, tutti per uno e uno per tutti!”, esclamò con genuina ammirazione il piccolo Steven, pendendo una volta di più dalle sue labbra. “È vero!”, rispose nonno James, sorridendo di fronte a tanto sincero entusiasmo. “E come in staffetta si dividono i meriti di una vittoria, così ci si spartisce, quando è il caso, anche le responsabilità delle sconfitte: purtroppo non sempre si può vincere, ma sappi che in certe occasioni, tipo un’Olimpiade, l’importante è davvero poter esserci ed essere convinti di aver dato, qualunque sia il risultato ottenuto, il meglio di sé…”.”Spero anch’io un giorno di poter vincere una medaglia bella come la tua!”. “Perché no, io te lo auguro di cuore! In fondo anche la vita, se ci pensi bene, è una staffetta; io ho potuto fare certe cose perché i miei mi hanno preparato il cammino, poi, quando sono diventato vecchio, ho passato il testimone al vostro papà: un giorno anche lui lo passerà a voi e voi ai vostri figli, l’importante è che ognuno si impegni sempre, al massimo, per fare la sua parte in questo mondo, con entusiasmo, senza riserve, poi i risultati arrivano da soli…”. “Sei forte nonno! Grazie per avermi raccontato di nuovo questa storia…”, concluse Steven, stampandogli un baciotto sulla guancia barbuta per poi scomparire dietro la porta con un pallone in mano. E James pensò, ad occhi lucidi, che per un sorriso come quello ne sarebbe valsa sempre la pena.

UPF Bergamo Celebrazione della Giornata Internazionale della Famiglia 15 maggio 2010

Si è svolta sabato 15 maggio 2010 alle ore 10 la Giornata Internazionale della Famiglia organizzata dalla UPF di Bergamo, in collaborazione con la FFWP, la Federazione delle Donne per la Pace nel Mondo, ed altre Associazioni della stessa Provincia come l’associazione “ARCOBALENO Onlus”, la Comunità Ghanese di Bergamo e l’Associazione Camerunense volontari del progresso. L’incontro si inquadra nelle celebrazioni della Giornata della Famiglia proclamata dall'ONU nel 1993 per ribadire la necessità di mettere la famiglia al centro dell’attenzione delle politiche dei governi, come cellula fondamentale per la crescita ed il miglioramento della società.
Il luogo prescelto per l'evento è stato l’Auditorium del Centro Sociale Loreto della Circoscrizione 2 di Bergamo; Poco più di 60 ospiti hanno fatto da cornice alla giornata ed il suo significato insieme alle emozioni che ne sono scaturite sono stati superiori alle aspettative.
L’incontro è stato aperto dal Presidente della UPF di Bergamo, Carlo Zonato, che ha spiegato il significato della giornata ed il motivo per cui la Universal Peace Federation aderisce alla celebrazione: è attraverso le famiglie, infatti, che si crea la pace. Come qualcuno ha detto, spesso il desiderio di cambiare il mondo nasconde il desiderio di non cambiare se stessi; in altre parole, il senso di impotenza che si prova di fronte alle tante situazioni drammatiche che affliggono la nostra società diventa per alcuni una scusa per proseguire nel proprio stile di vita con la motivazione che, nonostante il proprio desiderio di cambiamento , l’individuo non può influire in alcun modo sul trend generale. Fortunatamente non è così; come ci ha detto Gandhi, dobbiamo essere noi il cambiamento che desideriamo vedere nella società. E questo cambiamento comincia dalla famiglia come microcosmo della comunità globale.
In sostanza, ha sostenuto Zonato, il nostro desiderio di pace deve prima di tutto essere espresso nei nostri comportamenti di tutti i giorni, e deve poi essere portato nella famiglia. E' da questo nucleo, da questa cellula sociale, che inizia poi la diffusione della vera pace, che è quella che proviene dal cuore e non dai trattati.
Un saluto particolarmente gradito è stato quello del Dr. Leonio Callioni Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Bergamo e Presidente della Consulta alle Politiche familiari, che ha manifestato la particolare sensibilità ed accoglienza dell’Amministrazione verso questi temi e che ha onorato con la sua presenza fino all’ultimo momento questo incontro.
Hanno parlato poi Giannina Ravaglioli, presidente della Federazione delle Donne per la Pace di Bergamo, Enrico Bianchini, presidente della Federazione delle Famiglie per la Pace nel Mondo di Bergamo, e Christine Bianchini che ha sviluppato il tema centrale sul “Valore sociale ed Universale della Famiglia”. Ciascuno di loro ha arricchito dal punto di vista della propria Associazione il concetto espresso dal presidente Zonato.
In particolare Enrico Bianchini ha spiegato come la famiglia occupi un posto centrale nella concezione delle varie fedi, ed ha letto alcuni passi dai testi sacri delle principali religioni per dimostrare questo punto.
La festa – perché di questo si è trattato – è proseguita, nella tradizione di questi incontri bergamaschi, con il conferimento di un premio quale "famiglia esemplare" a due famiglie della provincia: Sergio ed Alzira Rossini per la propria attività nel campo del volontariato, dell'assistenza e della mediazione culturale.
L’altra famiglia premiata è stata quella di Alex ed Edi Djomo, coniugi del Camerun residenti da alcuni anni a Filago, nella provincia. I due, giunti in Italia dal Camerun, si sono trovati di fronte ad una certa chiusura nei loro confronti, sia da parte dei vicini che da parte del mondo del lavoro. Hanno però avuto l'intelligenza di capire che questo comportamento non era rivolto a loro personalmente, ma all'immagine che l'uomo comune ha dell’immigrato, visto come fonte di problemi, di delinquenza e di disordine. Invece di lamentarsi della situazione nella quale si trovavano hanno pazientemente lavorato per porsi verso i loro concittadini non come un problema ma come una risorsa. Hanno dato vita anche a varie iniziative pubbliche, ed un po’ alla volta sono riusciti a sciogliere l’alone di diffidenza che li circondava. Sono infine diventati così apprezzati che Edi ha potuto candidarsi alle elezioni per il consiglio comunale, ed è stata eletta, risultando anche uno dei candidati più votati nella cittadina ricevendo l’incarico come Assessore alla Cultura.
È stato sottolineato, nel corso della premiazione, che questa non intende premiare delle famiglie “migliori in assoluto”, perché questo è impossibile. Intende invece essere un riconoscimento ed un ringraziamento per famiglie che con il loro esempio possono aiutare altre famiglie ad aprirsi al mondo, a fare di più per gli altri.
Dopo questa premiazione, il presidente Zonato ha consegnato il diploma di “Ambasciatore di Pace” a quattro persone che si sono distinte per la loro azione volta nel senso indicato dal titolo loro conferito. Il primo è stato il sindaco di Filago Dr. Massimo Zonca per come ha saputo accogliere ed offrire spazi ed iniziative volte ad una integrazione reale degli immigrati nel suo comune; il secondo al Dr. Nicola Sisto, che nel quadro del suo incarico in un partito politico ha aperto uno sportello telefonico al quale le famiglie in difficoltà per la crisi economica possono rivolgersi ed ottenere per quanto possibile aiuti concreti; il terzo a Gabriella Vavassori quale Presidente dell’Associazione L’ARCOBALENO Onlus per l'impegno e la dedizione svolta con la sua associazione che si occupa di integrare a livello sociale le famiglie degli immigrati . Infine il quarto riconoscimento è andato proprio all’assessore Leonio Callioni per lo spirito di accoglienza e di concreto sostegno proprio sul tema della famiglia, testimoniato anche da molti dei presenti.
Come ultimo evento nell'evento cito la partecipazione di Elena Vittoria, una giovane cantautrice bergamasca, che ha ricevuto lo scorso anno il premio di Amnesty International per le sue canzoni di pace. I vari momenti dell’incontro sono stati scanditi dai suoi brani, cantati accompagnandosi con la chitarra: brani appassionati e molto apprezzati dal pubblico.
La giornata si è poi conclusa con un aperitivo e l'espressione del desiderio di tutte le realtà rappresentate di collaborare su attività concrete volte all'obiettivo comune.

L'UPF da il benvenuto al nuovo presidente Internazionale

Il Dott. Hyung Jin Moon, il figlio più giovane del Rev. Moon è stato nominato il nuovo Presidente Internazionale della Universal Peace Federation il 18 Novembre 2009. Ha sostituito il Rev. Dott. Chung Hwan Kwak, il quale ha occupato quella posizione per quattro anni, dall'inaugurazione avvenuta nel settembre 2005 a New York insieme al suo fratello maggiore Dott. Hyun Jin Moon che era nella posizione di co-presidente dal 2007.
Erano presenti alla cerimonia tutti i presidenti regionali e il presidente operativo dell'UPF, il Dott. Thomas Walsh, ha svolto il ruolo di Maestro di Cerimonia.
Nel suo discorso d'insediamento il nuovo presidente internazionale si è soffermato sulle sfide che dovrà affrontare l'UPF nel suo sforzo di portare pace fra le religioni del mondo e di creare un'unica famiglia sotto Dio.
"Ci sono molte organizzazioni che lavorano per la pace" ha detto, "che cosa rende l'UPF differente? Come fa il nostro fondatore a dire che la pace verrà? Sarà possibile solamente se avverrà un profondo cambiamento spirituale per l'intera razza umana".
Ha continuato nel rimarcare che il cambiamento e rinnovamento spirituale avverrà solo tramite istituzioni come la Cerimonia di Benedizione Mondiale, che porta uomini e donne di tutte le razze, credo e religioni insieme in matrimoni che trascendono tutte le barriere.
Nel dare il benvenuto al richiamo del Dott. Moon per un cambiamento spirituale, Il Dott. Walsh ha affermato che questa enfasi sulla condizione umana è simile alle conclusioni del secondo Segretario Generale delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjold, il quale scrisse 40 anni fa, "Non vedo speranza per una pace mondiale permanente. Abbiamo provato, e fallito miseramente. Se il mondo non ha una rinascita spirituale, la civiltà è destinata a fallire".
"Sfortunatamente, per molti anni, le Nazioni Unite non hanno trovato alcun posto per Dio o risorse spirituali nelle sue risoluzioni". Ma Walsh ha detto che "nell'ultimo decennio e in particolare da quando il fondatore dell'UPF nell'Agosto del 2000 ha parlato alle Nazioni Unite chiedendo l'istituzione di un Consiglio Interreligioso di pace all'ONU, le cose si stanno muovendo e c'è un crescente riconoscimento della necessità di risorse religiose per rispondere alla richiesta di Pace".
Il Dott. Walsh nel suo saluto di augurio per un 2010 di successo ha ricordato che la Universal Peace Federation crede che la pace mondiale ha bisogno di una fondazione interiore. Nel suo discorso inaugurale, il Dott. Moon ha commentato che la pace non si realizzerà mai senza prima aver realizzato una riforma spirituale. "La pace fra le nazioni non verrà mai se le nazioni coinvolte non avranno trovato prima pace in se stesse. Fino a che le circa 200 nazioni o membri stati all'ONU penseranno principalmente ai propri interessi, la pace e lo sviluppo rimarranno un sogno".
Ciononostante, l'UPF rimane ottimista che la famiglia umana potrà e supererà le vecchie divisioni di razza, religione e nazionalità e diventare "Un'unica Famiglia sotto Dio". Il fondatore dell'UPF vuole stimolare tutti a realizzare gli obiettivi del Millennio entro il Gennaio del 2013 due anni prima dell'obiettivo stabilito dall'ONU entro il 2015.
Con l'inizio di questo nuovo decennio, l'UPF è determinata nel perseguire la visione di un mondo di pace e sta espandendo la sua partnership con l'ONU e altre agenzie per offrire programmi ecumenici e di riconciliazione, rafforzando e sostenendo il matrimonio e la famiglia, e promuovendo una cultura di pace.

La legge 180 ha trentadue anni: quali risultati?

di Franco Previte

13 maggio 1978 / 13 maggio 2010 per la malattia mentale 32 anni di disinteresse delle Istituzioni.
Il 13 maggio 1978 il Parlamento Italiano approvava la legge 180, “legge” ispirata dallo psichiatra veneziano Franco Basaglia, che sanzionava che il malato mentale è da curare ed il “manicomio” una istituzione da abbattere.
Viene approvata dal Parlamento Italiano sotto la spinta minacciosa di un referendum abrogativo nella convinzione che il “manicomio” avrebbe riportato una maggioranza schiacciante: tutti volevano la riforma, votò contro il MSI, mentre i liberali si astennero, determinando il passaggio dal concetto custodialistico a quello terapeutico.
La legge 180 è stata emanata priva del Regolamento d’Applicazione e non ha previsto strutture alternative ed adeguate, organizzazione dei servizi, perché non vi è stata una serena valutazione dei limiti terapeutici attuati nell’epoca, stabilendo che la malattia mentale è un problema sociale ed il “malato” assimilato all’emarginato, all’handicappato, all’anziano non autosufficiente.
Con l’entrata in vigore della “legge” 180 :
1.) per decenni Basaglia ha cercato di curare i malati psichici fuori dagli ospedali;
2.) viene vietata la riapertura e la costruzione di nuovi “manicomi”, introducendo la norma che “accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari”;
3.) il TSO ( Trattamento Sanitario Obbligatorio) a base di farmaci antipsicotici dura solitamente 7 giorni e deve essere richiesto da uno psichiatra, firmato dal Sindaco e convalidato del giudice tutelare;
4.) tutti gli interventi relativi alla cura, prevenzione e riabilitazione devono essere attuati di norma dai servizi e dai presidi psichiatrici extraospedalieri.
In quel di norma si nota tutta la lacuna in cui la psichiatria ha vissuto e vive tutt’ora in aperta ambiguità perché :
a.) si dà il mandato al privato con costi elevati per cura;
b.) nei Reparti Ospedalieri a volte non esiste la presenza psichiatrica ed i pazienti vengono sottoposti a terapie massicce di farmaci tanto da renderli socialmente accettabili e poi dimessi , per essere riammessi qualche settimana o mese dopo.
In breve la legge ha due movimenti d’interpretazione, perché alcuni sostengono che :
1.) la legge 180 va rivista.
2.) bisogna potenziare i Dipartimenti di Salute Mentale; reinserimento lavorativo; prevenzione.
Per il punto 1) la 180 và rimodernata, mentre il privato copre il 50% delle esigenze del pubblico con alti costi.
Per il punto 2) siamo favorevoli al potenziamento dei Dipartimenti, ma contrari a quanti sostengono per nessun ricovero od ospedalizzazione pubblica, negando la cronicità (forse pensando di curare con la buona parola in alberghi a 5 stelle), favorendo in tal modo il lucro ed i business privati, come, forse, in atto sussiste.!
Onde consentire una più consona realizzazione delle strutture intermedie ed alternative previste dai “Progetti-Obiettivi della salute mentale” è opportuna la realizzazione di strutture territoriali di riabilitazione di lunga durata per i casi più difficili da riabilitare onde evitare che sulle famiglie gravino un carico insostenibile di disagi, costi e pericoli.
Chiediamo a gran voce : servizi specifici in strutture adeguate nel malato-persona da tutelare.
A 32 anni dall’emissione della legge 180, insiste una sola domanda: mentre le famiglie sono rimaste sole e con esse la società, su una realtà così sconvolgente, quali risultati qualitativi sono stati raggiunti?
Per le iniziative a favore di questo popolo di sofferenti non possiamo non ricordare le parole pronunciate con finalità pastorali etico-sociali dei Vescovi, dalla Santa Sede Apostolica con il Santo Padre Giovanni Paolo II° e da Papa Ratzingher su questo grave ed urgente disagio sociale
Un grazie di cuore ai Vescovi ed a Sua Santità da tutte le famiglie nelle quali insiste un handicappato psichico!
“Servire i malati nel corpo, nell’anima e nello spirito” sono la sintesi del Messaggio del S.Padre al XXIII° Congresso Mondiale della FIAMC (6/9 maggio 2010).
A futura memoria per Governo-Parlamento!

Kyrghizistan: una democrazia in pericolo

di Riccardo Venturini

La nostra dimensione si estende oggi oltre i confini del proprio paese e include anche la storia e i fatti che accadono a migliaia di chilometri da noi. La scelta di condividere insieme nella UPF i valori di pace e di fede che devono essere i principi di vita per ogni cittadino e per ogni collettività del mondo ci obbliga a guardare in questa direzione per riconoscere il senso e l’importanza dei recenti fatti accaduti nella Repubblica del Kyrghizistan e per intervenire almeno con la nostra mente e la nostra voce per salvaguardare i diritti e i principi di democrazia umani che riconosciamo come universali.
Il Paese
Il Kirghizistan è una repubblica indipendente dell’Asia centrale dal 1991 e ha una superficie di circa 198.500 km² (circa due terzi dell’Italia) con un 94% di territorio montuoso. L’altitudine media del paese è di 2750 m sul livello del mare, circa il 40% della regione kirghisa supera i 3000 m e per tre quarti è coperta da nevi e ghiacci perenni (viene riconosciuta come una riserva d’acqua mondiale). Il paese ha una popolazione complessiva di 4.965.093 abitanti, con una densità media di 25 abitanti per km².


La crisi politica
Il cambiamento è cercato da tutti noi sempre per migliorare la situazione, ma quando il Kyrghizistan esce dall’orbita sovietica all’inizio degli anni 90 e viene eletto come Presidente il Prof. Askar Akayev, riconfermato successivamente la situazione appare sempre tale e quale. Ne 2005 si giunge a un rovesciamento dei poteri, con la rivoluzione dei tulipani e l’insediamento di un nuovo Presidente Kurmanbek Bakiyev. Ancora una volta molte aspettative, molti sogni e una realtà che stenta a modificarsi in meglio. Fintanto che ripartono i movimenti di rivolta e le proteste popolari che portano Bakiyev a fuggire e a chiedere asilo in Bielorussia. Ancora adesso mentre scrivo, sono segnalati nuovi episodi di violenze nel paese tra i sostenitori del governo ad interim e quelli del presidente deposto. Mentre ogni episodio di scontro ci riporta questa realtà lontana all’attenzione e purtroppo dobbiamo riconoscere l’effetto paradossale che solo la dimensione di un disastro scatena poi un alto numero di reazioni, voglio invece soffermarmi sul quanto sia importante (proprio prendendo la realtà kyrghisa come esempio) intervenire subito ad altri livelli. Per primo quello del leggere oltre le righe e riconoscere il potere che sopra il paese vede contrapposti Stati Uniti e Russia per riuscire a controllare meglio la base aerea di Manas. Infatti, negli ultimi anni Bakiyev aveva modificato più volte la costituzione accrescendo i propri poteri e chiudendo le sedi di alcuni giornali poco graditi, facendo arrestare alcuni esponenti politici dell’opposizione; nel 2007 e reprimendo con violenza le proteste dell’opposizione, che lo accusava di corruzione e di aver ignorato le promesse della campagna elettorale del 2005. Anche la sua stessa rielezione nel 2008 era avvenuta con il sospetto di brogli elettorali. Bakiyev aveva nel tempo vissuto una progressiva sfiducia da parte della Russia (Putin e Medvedev) per non aver fatto rimuovere come invece aveva promesso, proprio la base aerea americana a Manas in territorio del Kirghizistan. All’opposto rinnovando lo scorso anno la concessione d’uso di Manas agli USA per 10 anni in cambio di cospicui investimenti economici americani nel paese. Ora mentre è indispensabile per ogni paese stringere le alleanze più solide per garantire e promuovere il migliore sviluppo possibile è altrettanto vero che questa scelta deve essere fatta in modo collettivo e nell’interesse di tutti. Quando il potere acceca la vista, occorre ritrovare prima l’orientamento per poi proseguire nella direzione corretta.
La cronaca
Nel marzo 2010 Roza Otunbaiyeva. leader dell’opposizione si recava a Mosca per chiedere un appoggio più forte al governo russo e dopo averlo ottenuto riusciva a scatenare una progressiva rivolta dalla capitale per poi estendersi in tutto il Paese. Il 7 aprile 2010 l’opposizione con un’estesa manifestazione di piazza aizzava e guidava il malcontento popolare verso la rivolta.


Violenti scontri di piazza nella capitale portavano alla fuga del presidente Bakiyev e alla proclamazione di un nuovo governo ad interim guidato della leader dell’opposizione Roza Otunbaiyeva. Il nuovo governo chiedeva aiuti umanitari alla Russia che gli venivano subito concessi con l’appoggio al nuovo governo. E, oggi, a poco più di un mese dalla rivolta torna altissima la tensione: il sud del Paese è ripiombato nel caos dopo che alcuni fedelissimi del presidente deposto hanno occupato gli uffici amministrativi di Osh e Batken. Poi, dopo ore di durissimi scontri, i filo-governativi riprendevano il controllo del palazzo che ospita l'esecutivo regionale a Osh. Il governo provvisorio minimizzava gli episodi nel sud, poi chiamava a raccolta i suoi sostenitori affinché scendessero a loro volta in piazza per dimostrare di essere più forti e più numerosi.



L’analisi e una conclusione
Il confronto tra russi e americani proseguirà e per riprendere un mito del passato avremo ancora gli Orazi e i Curiazi che si dovranno confrontare (mettendo in gioco le loro vite) per chi potrà dire di avere vinto la guerra. Pensiamo ora in maniera aperta e accettiamo l’idea che un paese indipendente dell’Asia vuole crescere e svilupparsi per i propri cittadini e che potrebbe anche allo stesso tempo avere insieme russi e americani che collaborano per la ristrutturazione di Manas (L’epopea di Manas è il poema epico del popolo kirghiso. Manas è il nome dell’eroe; il poema, trasmesso per tradizione orale, articolato in oltre mezzo milione di versi è in proporzione oltre venti volte la somma del numero dei versi che compongono l’Iliade e dell’Odissea sommati insieme e circa il doppio del Mahābhārata. Il poema racconta le gesta di Manas, dei suoi discendenti e seguaci. Sebbene il poema sia già menzionato nel XV secolo, la prima versione scritta è datata al 1885. L’epica è la colonna portante della letteratura kirghisa, e alcune parti di questa vengono recitate nelle festività locali dai Manaschi, specialisti della lettura e della recitazione dell’epica) nell’interesse del Paese e del commercio e dello sviluppo (non a caso è di pochi giorni fa la grande parata militare a Mosca con i corpi provenienti dai quattro stati che hanno vinto contro il nazismo nella seconda guerra mondiale). Perché non possiamo piuttosto che contare i cadaveri o quanti sono a sostenere un regime o l’altro metterci prima a tavolino e indicare a Stati Uniti e Federazione Russa come e cosa vorremmo (come Governo e/o Presidente del Kirghizistan) per sviluppare il paese e renderlo il posto migliore dove viverci al mondo. Ispirandomi al modello della teoria dei giochi di Von Neuman, perché non possiamo trasformare questo gioco a somma zero (dove uno vince e uno perde) in un gioco a somma diversa da zero dove tutti possono vincere, insieme, prima di tutti il popolo kirghiso.

L’Europa, il Mediterraneo e la Pace

A Sud tutto sembra destinato a soccombere sotto il fuoco premeditato degli eserciti e le bombe assassine del terrorismo. Per i paesi che hanno nel mare lo sbocco, non solo commerciale ma anche culturale, la chiusura dello spazio rappresenta il soffocamento di ogni progetto di futuro.

del Dott. Pino Rotta

Nelle analisi che abbiamo pubblicato sulla rivista Helios Magazine (*) abbiamo sempre, purtroppo, avvertito con anticipo i venti di guerra che si facevano avanti portandosi dietro i presagi di un’angoscia diffusa che oggi è diventata realtà.
Un’angoscia che non è solo il frutto della visione di una parte del Mediterraneo e del Medio Oriente, sempre più teatro di eventi di giorno in giorno più drammatici e folli, ma anche di una sorta di blocco psicologico che si è esteso nella coscienza collettiva europea afflitta dalla consapevolezza che la situazione di crisi politica internazionale, che tocca da vicino ognuno di noi, è destinata a diventare una realtà con cui convivere per chissà quanti anni ancora.
E’ lo spazio che si chiude attorno a noi. Mentre ad Est dell’Europa, caduti i muri, si allargano i mercati, a Sud tutto sembra destinato a soccombere sotto il fuoco premeditato degli eserciti e le bombe assassine del terrorismo. Per i paesi che hanno nel mare lo sbocco, non solo commerciale ma anche culturale, la chiusura dello spazio rappresenta il soffocamento di ogni progetto di futuro. Non si può immaginare di mantenere e valorizzare le proprie radici culturali quando anche il solo spostarsi da un paese all’altro diventa fonte di preoccupazione per i pericoli che si corrono, non si può rimanere impassibili guardando le carrette del mare trasportare, spesso verso la morte, innocenti in fuga dalla guerra e dalla fame.
Questa angoscia sta investendo la sfera del privato di ognuno di noi. La maggior parte degli italiani, impauriti, si rifugiano nei talk show che offrono sentimentalismo a basso prezzo. Il ruolo stesso degli individui si è come rifugiato in un ancestrale regresso uterino, in cerca di certezze e protezione. Come diceva Leonardo Sciascia: "La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini".
In questa situazione anche eventi culturali di portata storica internazionale come le Olimpiadi, diventa la progettazione di eventi sportivi blindati, dove la presenza di guardie armate e sistemi di difesa antiterrorismo prevale sull’immagine della gara olimpionica simbolo di pace per eccellenza.
Allora ci si chiede quale può essere oggi, in questo contesto, il significato di integrazione e contaminazione sociale e culturale. Ci si chiede se lo scontro tra l’occidente, individuato sempre più con la politica aggressiva degli Stati Uniti d’America, e mondo islamico, che nella realtà della cronaca quotidiana è rappresentato ormai quasi esclusivamente dall’immagine del terrorista pronto a seminare morte e sgomento, siano l’unica realtà con cui realisticamente ci si deve abituare a convivere.
Fino a pochi anni addietro l’Europa si proponeva come elemento di coesione tra questi due mondi, con il suo ruolo di mediazione culturale, politica ed economica, con la sua vocazione all’accoglienza.
Con la guerra in Iraq questa funzione dell’Europa è stata sospesa per chissà quanto tempo. E con l’Europa che fatica a recuperare il suo ruolo sullo scacchiere internazionale, con l’ONU che viene messa in discussione vediamo vacillare i valori fondanti della nostra civiltà: tolleranza, libertà nella dignità, solidarietà nella pace. Questa situazione è da considerare irreversibile? Forse sì, comunque non è dietro l’angolo il cambiamento. Quand’anche cambiassero le scelte americane (con la sconfitta di Bush ora è possibile) ci vorranno anni per recuperare quanto di costruttivo era stato fatto dall’Europa nel senso opposto. Certo alcuni anni non sono alcuni decenni, quindi è auspicabile che questa situazione cambi il più presto possibile.
Ma le cose come sappiamo non accadono per caso; l’impegno per la pace, la tolleranza e la solidarietà tra uomini e donne liberi, è un traguardo che deve essere perseguito con la volontà e l’azione di ognuno, giorno per giorno, anche quando la speranza sembra cedere è necessario mantenere viva la fede che in ogni uomo il desiderio di pace rimane. Lavorare perché le condizioni culturali e sociali favoriscano l’emergere di questo sentimento non è un’utopia sulla strada della fratellanza è una scelta non solo auspicabile ma obbligata se vogliamo pensare ad un futuro per le prossime generazioni.

(*) Dott. Pino Rotta
Direttore di Helios Magazine

DRONI: NUOVI AGENTI CON LICENZA DI UCCIDERE.

CARLO ALBERTO TABACCHI

Versatilità e controllo del territorio sono sempre più appannaggio di piccoli aerei, chiamati droni. Il termine è mutuato dalla robotica, cioè un robot con limitate capacità decisionali che può essere comandato da remoto, a distanza.
Nella base militare di Creech, nel Nevada, la Central Intelligence Agency (Cia) controlla i droni. Tali apparecchi non hanno piloti, guidati da tecnici in un universo asettico e senza rischi. Con una lunga e fine fusoliera bombata sul davanti per accogliere un'antenna satellitare, le ali strette e le derive posteriori inclinate, questi velivoli assomigliano ad inquietanti insetti.
I più utilizzati sono i Predator (rapace) costruiti dalla statunitense General Atomics. Un drone Mq-1 Predator può restare in volo oltre 24 ore. È progressivamente sostituito dal suo successore Mq-9 Reaper (mietitrice), 2 volte più grande, 4 volte più pesante (4,7 tonnellate) e con una capacità di carico d'armi 10 volte maggiore. In pochi anni, le autorità americane si sono dotate di numerosi aerei senza pilota. Tra il 2002 e i12008, la flotta di droni a passata da 167 ad oltre 6.000 (!) apparecchi; per 1l 2010, l'amministrazione Obama ha previsto quasi 4 mld di dollari per lo sviluppo e 1' acquisizione di droni, in particolare 24 Reaper per l' U.S. Air Force e 5 Global Hawk. Ogni anno dal 2001 le somme destinate ai robot militari risultano il doppio, permettendo l'emergere di una industria robotica militare rilevante.
A parte Stati Uniti ed Israele, sono circa 40 i paesi impegnati nello sviluppo delle varie classi di droni; in Italia, Alenia e Galileo coltivano nicchie di eccellenza affiancate da Pmi e laboratori universitari. Come si sa, alcuni droni italiani risultano operativi nel teatro afgano. Il governo di Roma intende in un futuro impiegarli in servizi di polizia, antincendio e nello studio di cambiamenti climatici.
Certamente la lotta contro i terroristi, specialmente nella turbolenta area di Iraq, Afghanistan e Pakistan, e cambiata con 1'apparizione dei droni. La stessa Al-Qaeda ha ammesso i suoi timori per questi apparecchi silenti e (quasi) invisibili. I Predator ;sono diventati una forza di contro-guerriglia che si infiltra in territorio ostile: controlla lo status di un percorso, verifica se vi siano alterazioni alla pavimentazione stradale, segnala anomalie e nel caso interviene lanciando missili.
In Afghanistan e in Pakistan si sono trasformati in una punta di lancia con l' obiettivo di decapitare i movimenti talebani e quaedisti. Non essendo affatto facile per 1'intelligence infiltrare i propri agenti nell'area tribale e lungo il confine, il compito in parte è passato ai droni. Spie locali forniscono i targets, nascondono piccole cimici the emettono luci visibili solo dai sistemi all' infrarosso degli Uav (Unmanned aerial vehicle) fornendo dati essenziali. Così sono riusciti ad eliminare una ventina di High value target, ovvero bersagli di grande consistenza.
Quanto costa un drone? Per un Predator occorrono circa 4 ml di dollari, per un Reaper 12. In tempi di grave recessione economica mondiale, questo apparecchio presenta un risparmio non indifferente rispetto all' addestramento dei piloti. I sensori del Reaper coprono un' area di 6 kmq e nel 2013 entrerà in servizio una versione che amplierà il quadrante sorvegliato a 20 kmq. Le telecamere del Predator trasmettono alle truppe a terra 10 video simultanei, mentre it Reaper 30 immagini video. Tecnici ed assistenti seduti in una base aerea a terra possono trasformarsi in temibili segugi, via dopo via, cercando un mezzo sospetto in una strada trafficata o disordinata di Mosul o Mogadiscio; possono verificare se a bordo vi siano passeggeri Innocenti o terroristi. Lo stesso possono fare nel caso siano impegnati nello spiare le mosse di una barca a largo della Somalia o nel Golfo.
Tra l'altro, i droni sono stati anche affittati: in Macedonia durante il conflitto del Kosovo, droni israeliani sono apparsi in Georgia nell'agosto 2008 per monitorare i movimenti delle truppe russe.
Il riconoscimento che sul piano tattico questi piccoli velivoli hanno un impatto devastante viene dagli stessi terroristi. La minaccia Uav spinge i militanti ad una grande prudenza, circospezione: i super ricercati riducono gli spostamenti al minimo, si nascondono in case sicure o persino in bunker, sempre attenti all'utilizzo di apparati di comunicazione per evitare di essere intercettati.
Un altro fattore positivo è che i droni rendono la vita difficile agli artificieri del terrore, cioè a quelle bande che di solito tendono agguati con ordigni improvvisati (ied) a pattuglie dall'Iraq all'Afghanistan. Un tempo 1'attentatore doveva accertarsi che non ci fossero militari nelle vicinanze e poi potevano nascondere l'ordigno sotto l'asfalto o all'interno di una carcassa di animale: adesso la sorpresa può arrivare improvvisamente dal cielo.
In conclusione, i fattori positivi di un loro impiego sono, come già detto, imprevedibilità nel fotografare e colpire nuclei terroristi, costi abbastanza contenuti, versatilità del loro impiego (controllo ambientale, monitoraggio di flussi migratori...). Tra gli elementi negativi, nei raids non muoiono solo terroristi ma anche civili, forte componente di stress per il personale specializzato addetto a terra; inoltre, i droni "soffrono" le condizioni meteo e talvolta è necessario sospenderne la missione. Quindi, l'apparizione nei cieli dei droni rappresenta solo 1'inizio di una stagione nella quale nessuno può prevedere limiti e sviluppo.

La Serbia ammessa nella zona Shengen IL RITORNO A CASA

Cosa significa tutto questo per la Serbia e per i serbi?
La risposta a questa domanda dipende a quale Serbia e a quali serbi è stata rivolta.


di Rada Rajic Ristic

Finalmente la Serbia è nella zona Shengen e i cittadini della Serbia possono uscire dai confini di questa terra dopo diciotto lunghissimi anni, desiderosi di respirare anche l'aria al di fuori del loro paese.
Cosa significa per i cittadini della Repubblica di Serbia, ho voluto chiedere ad una scrittrice e giornalista serba, Zivoslavka Isailovic che da anni si interessa di questa problematica dolorosa e storica di un paese e di una nazione, duramente colpiti da molteplici fattori: "Il giorno di San Nikola 2009, la festa ortodossa che i serbi festeggiano in gran numero, ricorderemo anche per un volo insolito, esattamente a mezzanotte dall'aeroporto Di Surcin”, Nikola Tesla", ai passeggeri per Bruxelles dopo due decenni per la prima volta non serviva il visto d'ingresso nei paesi dell'Unione Europea. La Serbia è da quel giorno di nuovo sulla cosiddetta lista bianca Shengen.
Cosa significa tutto questo per la Serbia e per i serbi?
La risposta a questa domanda dipende a quale Serbia e a quali serbi è stata rivolta.
Tuttavia, la risposta è all'unisono sia della “semplice” Serbia che di quella che rappresenta l'èlite politica e tutte le altre e anche di quello schieramento nazionalista, come anche di quello di schieramento europeo, sarebbe il ritorno sulla lista bianca dello Shengen come il ritorno a casa. La Serbia è stata e sarà sempre parte dell'Europa, nella storia è stata un significativo fattore e il “ghetto” in cui siamo stati chiusi, a causa delle guerre, sanzioni e bombardamenti, avrebbe dovuto prima o poi finire, forse non avrebbe dovuto neanche durare così tanto e se questo sarà segnato e ricordato come una macchia della vergogna di quella stessa Europa che aveva messo la Serbia in questo ghetto, oppure della Serbia come eventuale colpevole per il burrascoso dramma balcanico, tutto ci dice che questo non si chiarirà per ancora un lungo periodo di tempo.
Il viaggio libero, senza visti, nei paesi dell'Unione Europea, oltre la possibilità concreta, per la maggior parte dei giovani, che per la prima volta esce fuori dai confini della Serbia (se riuscissero a reggere economicamente, vista la crisi economica che ha colpito la Serbia, già impoverita nella fase della transizione). Questo regime senza visti d'ingresso, significa anche un passo più vicino all'accoglimento della Serbia nella Unione Europea, però oltre tutto una vasta possibilità economica, culturale, finanziaria ed ogni altra collaborazione con i paesi dell'Europa. A questa collaborazione più forte e più ricca, in futuro potranno dare un'impronta anche i singoli individui ed i gruppi, indisturbati dai movimenti condizionati. E questo senz'altro non è da poco.

Su un piano generale quando si parla dell'integrazione euro-atlantica, il regime senza visti è qualcosa che viene dato per scontato, però non promette niente, ma neanche sulla veloce accoglienza della Serbia nell'Unione Europea, esistono delle opinioni diverse. La Serbia, quando si parla delle cose interne, è stata sempre divisa, è così anche quando si parla dell'Europa.
Quello che è certo è che ogni persona in Serbia dopo due decenni di regresso e di isolamento, senz'altro desidera il progresso ed una strada verso un futuro migliore. In questo senso la strada per l'Europa e la sua famiglia dello sviluppo e del progresso, anche per la maggior parte dei serbi, significherebbe una scelta logica, quando quella strada , almeno quando la Serbia è in questione, non fosse sbarrata e condizionata da tanti compromessi ai quali la Serbia è più o meno impreparata ad accettare. La collaborazione con il Tribunale dell'Aja, al quale la Serbia ha consegnato quasi tutto il suo vertice politico-militare dei tempi che furono, a lungo è stata la condizione per qualsiasi dialogo con il mondo. Le istituzioni serbe per anni hanno collaborato nella cattura degli accusati dell'Aja, però da Bruxelles arrivavano sempre nuove richieste. Adesso due accusati latitanti e non ancora catturati, Ratko Mladic e Goran Hadzic, semplicemente non rappresentano più una condizione alcuna, però la questione è: fino a quando?
Durante il periodo della consegna dei propri cittadini da parte della Serbia al Tribunale dell'Aja, è successo il caso Kosovo - sotto il protettorato e la benedizione di alcune grandi potenze mondiali, è stata strappata una parte di Serbia, si è autoproclamata e da quegli stati riconosciuta come stato autonomo. La Serbia ancora oggi, e non solo il suo popolo, ma anche l'intero governo non rinunciano al Kosovo e non vorranno mai riconoscere quell'indipendenza vergognosa, senza tenere conto dell'atteggiamento delle grandi potenze, riguardo a queste questioni e senza prendere in considerazione quale influenza potrebbe avere sul futuro cammino della Serbia verso l'Europa. Però, ultimamente, la questione del riconoscimento del Kosovo come stato indipendente, da parte della Serbia, come condizione per il dialogo con la Serbia - nessuno lo pone più ed è questo che confonde e sorprende. Si direbbe che le sofferenze della Serbia, quando si tratta di ricatti e condizioni, siano finite e che la strada per l'Europa sia largamente aperta.
Tuttavia chi sa se è così? E chi sa se l'Europa è l'unica scelta della Serbia?
Geo-strategicamente e politicamente , la Serbia è parte dell'Europa, ad essa più vicina e la questione di scelta non si dovrebbe porre nemmeno. Però quello che fa della Serbia uno stato specifico, anche nella storia ed anche oggi, è proprio quella sua posizione che è sempre stata tra l'Oriente e l'Occidente( in tutti i loro significati evolutivi) e ciò in tutti i segmenti: politici, etnici e culturali. Per questo sono anche i sentimenti dei serbi verso le scelte europee ambivalenti. I cronisti più precisi hanno già diviso la nazione serba in base a questo in “euro-scettici” ed “euro-ottimisti”. Addirittura si parla di referendum sull'ingresso nell'Unione Europea, anche se nessuno ha mandato un invito alla Serbia...
Contemporaneamente con la collaborazione con l'Europa in ogni questione e condizione possibile che ci è stata imposta, il Governo serbo non rinuncia alla collaborazione con la parte non europea del mondo. La collaborazione con la Russia si fortifica (anche se molti chiamano questo una specie di corteggiamento da parte del Governo serbo) ed i contatti con il cosiddetto terzo mondo sono uguali ai contatti con l'Europa. Forse con questo la Serbia desidera dimostrare all'Europa che andare verso di essa è una scelta logica, però non deve per niente essere l'unica scelta: chi lo sa?
Nella realtà, la transizione e la privatizzazione ha fatto si che in Serbia ci siano proprietari, ma anche capitale sia europeo che non europeo.”


Rada Rajic Ristic è nata in Serbia nel 1964 e si è laureata in letteratura jugoslava e lingua serbocroata presso l'Università di Belgrado. Lavora come traduttrice letteraria e mediatrice culturale.

MORBI SOCIALI E SPESA SANITARIA: VERSO UN’ALLEGRA BANCAROTTA?

del Dott. Giuseppe Rossi
Perdonatemi se inizio l’articolo con una specie di bollettino di guerra. Molti dati risalgono al 2003, ed oggi purtroppo la situazione è peggiorata. Il “bollettino” riguarda naturalmente la (scarsa) salute degli italiani.
Cominciamo dalla bocca: un terzo della popolazione adulta soffre di piorrea alveolare, ha cioè le gengive infette, denti instabili. Spostiamoci giù nello stomaco: quasi un italiano su due è infetto da Campylobacter, cioè ha lo stomaco a rischio. Poco più in là dello stomaco, nel duodeno, dove va a finire la bile prodotta nel fegato, la situazione non migliora di molto, dato che altri 10 milioni di italiani producono calcoli nella colecisti o nelle vie biliari, mentre altri milioni si limitano ad averla possentemente acida, corrosiva, ed essa cola, lenta e maestosa, lungo le pareti intestinali giù giù fino al….Beh insomma, volgiamo lo sguardo in alto, al capo: più di quindici milioni di italiani sembra che soffrano cronicamente di mal di testa, 11 milioni sono ipertesi, 10 milioni hanno problemi alla tiroide. Oggi un italiano su tre incappa nella sua vita in una qualche forma di tumore, quattro bambini su dieci soffrono di allergie, da sei a nove milioni di persone hanno disturbi del sonno, più di quattro milioni e mezzo soffrono di cosiddetta depressione grave, 5-6 milioni sono impantanati nella palude delle fobie, 4 milioni almeno vivono periodicamente un inferno chiamato “crisi di panico”, quasi un italiano su sei viene ricoverato almeno una volta all’anno in ospedale, e potrei continuare, ma il quadro è già abbastanza significativo e deprimente.
Consideriamo adesso rapidamente anche l’aspetto economico. Nel 2003 la spesa sanitaria è stata calcolata in 93 miliardi di euro. Oggi gli ultimi dati parlano di 110 miliardi. Se noi suddividiamo questa cifra tra i venti milioni di famiglie italiane, ammesso che pochissime siano esenti, o in…nero, si può facilmente dedurre che su ogni singola famiglia pende una spesa annua non inferiore ai 5000 euro. Può mai essere ricco, produttivo, creativo, competitivo, un popolo che arranca, che ha bisogno di tanto per sopravvivere? Ammesso pure che ci riesca a sopravvivere, dal momento che le morti da cause iatrogene, cioè quelle causate da errate cure mediche, sono al quarto posto tra le cause di morte. Ogni anno, e chiudo davvero con questo bollettino, si contano circa venticinquemila decessi per infezioni contratte negli ospedali, quasi un morto ogni venti minuti.
Forse “qualcosina” ancora non va nella prevenzione e nella gestione della salute. In Italia abbiamo, tutto sommato un discreto servizio sanitario, e non mancano punte di eccellenza ma, visti i dati, non credete che si possa operare molto meglio? Soprattutto a monte di queste falle. La nostra casa Italia è come allagata, il povero servizio sanitario si dà da fare per drenare l’acqua, ma qui c’è bisogno anche di un “idraulico” che individui la natura ed i siti delle perdite.
Allora, che dire? Siamo fatti male noi italiani? Siamo sfortunati? Oppure la dea Fortuna non centra, e bisogna appunto andare in cerca di altre variabili, di nuove chiavi interpretative, di variabili che la cultura politica e medica del nostro tempo ha voluto finora ignorare o sottovalutare.
Proviamo a parlare di due cause fondamentali a monte del disastroso panorama sanitario: le informazioni psichiche e quelle alimentari. L’uomo è quello che pensa e quello che mangia. Pensiero e cibo sono due diversi tipi d’informazioni energetiche. Il pensiero non è un’astrazione, è una forza che agisce, diciamo così, dall’alto ed è solitamente più potente, avendo un accesso preferenziale nella “stanza dei bottoni”. L’energia-pensiero influenza cioè le decisioni dei potenti “ministeri” che sono situati nella corteccia e nella sottocorteccia cerebrale. E i ministeri sono importanti, perché danno il là ai ritmi vitali, alla produzione di ormoni, all’equilibrio neurovegetativo, metabolico ecc.
Le informazioni chimiche del cibo vanno a nutrire invece, dal basso, il flusso intensissimo di energie necessarie alla vita, al ricambio.
Come gestiamo il nostro pensiero e il nostro nutrimento? Il nostro intasatissimo medico di base quanti secondi dedica alla psiche e alla dieta dei suoi pazienti? E con quanta competenza riesce a farlo, e con quanta voglia, visto che siamo riusciti a farlo diventare un quasi-burocrate, con enorme spreco di professionalità e di risorse?
Il sistema corporeo è come un’azienda, e proprio come un’azienda deve perciò far quadrare il bilancio. Ogni giorno entrano nei congegni miracolosi di questa azienda triliardi di input, cioè micro-informazioni psichiche, elettromagnetiche, chimiche. L’ ”azienda” deve processare, digerire, assimilare le informazioni, e deve eliminarne le scorie in modo tale che non ci siano intasamenti, congestioni, ridondanze, e che non diventino terreno di coltura per forme inferiori di vita, o addirittura focolai anarchici. Insomma, il bilancio deve essere ogni giorno in parità, altrimenti ingrassiamo o perdiamo peso, o rimuginiamo pericolosamente dati indigesti per la mente e per il corpo. In questi ultimi decenni stiamo andando sempre più spesso ad affollare quelle “discariche” organiche le quali, incapaci di smaltire l’eccesso di carico, si infiammano e degenerano oppure iniziano processi cosiddetti autoimmuni, o avviano fermentazioni o putrefazioni incontrollate che reintroducono veleni in circolo innescando così pericolosi circoli viziosi.
L’asse della vita è un asse dinamico e simmetrico allo stesso tempo. L’impulso è verso la gioia, la varietà, la curiosità, ma inseguendo tragitti armonici, circolari, dove ritmi e bioritmi vengono rispettati in un concerto di risonanze, secondo il principio del minimo mezzo. Input ed output, dare e ricevere, equilibrio tra entrate ed uscite, euritmia e coerenza tra sistemi gerarchizzati e sinergici: sono concetti che la nostra affannata civiltà decadente considera molto marginalmente. La legge selvaggia del profitto, del tornaconto più o meno immediato, ha creato pseudo-bisogni ed automatismi economici ormai nelle mani di pochi apprendisti stregoni senza scrupoli che non sanno più gestire, ammesso che lo vogliano, quelle forze immense e pericolose che hanno scatenato nell’ecosistema. E oggi in questo vortice inebriante ci si mettono pure la Cina e l’India, con tanti saluti alla vecchia cultura taoista, ai diritti dei lavoratori, al millenario rispetto per gli esseri viventi etc. etc..
Ma torniamo all’uomo, al piccolo universo umano. La specie “homo sapiens-sapiens” dovrebbe essere almeno un pochettino sapiens, non credete? Ma forse più probabile che questa sua sapienza, questa sua capacità cioè di assaporare la vita si sia un po’ persa per strada, visto che, ad esempio, quasi un italiano su due, appena va in pensione, diventa depresso subito, proprio incapace di apprezzare sé stesso e questo dono meraviglioso che è la vita, con tutte le sue sfumature infinite e cangianti.
L’uomo è quello che pensa. Quando un uomo è integro, solitamente il suo pensiero è integro. I quanti di luce del suo pensiero riescono allora a dare coerenza e unità al flusso di dati che arrivano a quelli che abbiamo definito “ministeri” cerebrali. La biofisica ci insegna che quando c’è coerenza, quando cioè i segnali pulsanti del pensiero sono accordati in fase e in ampiezza con quelli che sono i programmi e le aspettative della “phisis”, della natura umana, quando cioè i “ministeri” funzionano e non c’è conflittualità, non ci sono violenze né compromessi tra i vari dipartimenti, le direzioni arrivano in periferia senza problemi, non ci sono distonie, e l’ ”umore”, anzi gli “umori” sono buoni, mentre la relativa secrezione di ormoni non causa eccitazione, né al contrario dimentica e affama le diverse periferie. In questo modo non si assiste a “scioperi” negli esecutori biologici periferici, perché c’è armonia. Un organismo integro informa adeguatamente i suoi globuli bianchi, che sono poi piccoli cervelli migranti, e così l’io controlla il non-io, le realtà diverse da sé, il sistema immunitario cioè funziona bene, riuscendo a controllare il territorio; i globuli bianchi, i nostri poliziotti biologici, non sono corrotti, non offrono copertura, come avviene nell’AIDS, a virus “mafiosi”.
Ma quanto è difficile rimanere integri in una civiltà come la nostra che non ha più punti di riferimento, ormai incapace di ascoltare le voci di dentro in mezzo a tanto rumore, in un’atmosfera culturale schizoide che ha trasformato anche professionisti di buon livello in tanti bravi, preparatissimi, piccoli tecnici al pezzo.
L’”homo sapiens” è diventato “homo oeconomicus”, ma sta già trasformandosi in “homo machinalis” (cito il mio amico Fausto Gianni, grande quanto sconosciuto scrittore), mentre la specie “homo insipiens” conquista alacremente il primato nelle arti, nelle lettere, nella filosofia. Ma anche della specie ultima l’”homo pecus”, non è raro poterne incontrare bellissimi esemplari in televisione, tra gli uomini di teatro, di cinema, nelle redazioni dei giornali, nelle Università, nei Parlamenti ecc. ecc.
Insomma diventa sempre più difficile essere in salute in un mondo alienante. L’uomo di oggi non conosce il suo valore, le sue immense potenzialità, e spesso frappone il velo degli psico-farmaci, oppure tenta di evadere, di suicidarsi con droghe pesanti o cosiddette leggere, che alterano il delicato tessuto relazionale, e buonanotte.
Altro input è il cibo. L’uomo è ciò che mangia. Ed è un altro grosso problema poiché l’ecosistema che lo circonda e di cui si nutre, è già intasato, e altrettanto lo sono i suoi emuntori. La produzione di tossici chimici, il disperdersi massiccio e incontrollato di metalli pesanti, lo sfruttamento e l’assottigliamento dell’humus ed altre anomalie, stanno trasformando e deteriorando la qualità dei nostri cibi. I nostri filtri biologici pertanto, si intasano e si ammalano. Le nostre “truppe” anticorpali fanno quello che possono ma sono esauste, e così le allergie lievitano, assieme alle intolleranze alimentari, alle malattie degenerative, ai tumori ecc..
Che fare allora? Ma certo! Mettiamo altri farmaci, altre sostanze tossiche in circolo in un ecosistema già al limite. Tanto si comincia a pensare che siamo già un po’ immuni da questi veleni: vengono oggi “fortunatamente” riciclati nell’aria che respiriamo, nell’acqua che beviamo, nei cibi cui siamo abituati. Questo si chiama circolo vizioso e ci può portare in un’unica direzione: quella del cimitero.
Possono però esistere anche circoli virtuosi, ma la volontà politica sembra un po’ latitante. Il fatto è che oggi non possiamo più prendercela comoda, tutto sembra evolvere in modo tumultuoso rispetto al passato. Così pure è oltremodo urgente un’evoluzione dei parametri culturali. La religione scientista, ad esempio, dovrebbe ridimensionare le sue pretese. La cultura medica in special modo, dovrebbe imparare ad emanciparsi dalla rigida metodologia delle “scienze dure”, la mafia accademica dovrebbe tornare a rileggere il giuramento d’Ippocrate e affrettarsi a governare e non boicottare la transizione, in atto da tempo negli altri paesi, dal paradigma biochimico al paradigma biofisico. Senza uno sforzo serio delle coscienze non sarà possibile frenare la corsa al suicidio che non è purtroppo soltanto italiana ma dell’intero “villaggio globale”.

Estratto dell’intervista rilasciata da Goto Toru alla rivista Today’s World del Movimento dell’Unificazione.

Oggi Goto è Presidente dell’Associazione delle vittime dei rapimenti a fini religiosi e di conversione forzata.

Qual è la sua impressione sulla situazione interiore delle vittime dei rapimenti che lei ha incontrato?
Molte di queste vittime piangono quando chiedo loro di descrivermi la situazione che hanno vissuto. Non sono riusciti a superare gli effetti dell'esperienza subita; ciò ci fa capire la gravità di questi rapimenti.

È vero che gli ex rapiti giapponesi che vivono in Corea non hanno nessuna intenzione di tornare in Giappone? (NdT: varie persone che sono riuscite a fuggire dalla prigionia in Giappone, per sicurezza hanno raggiunto il Movimento dell'Unificazione in Corea).
Alcuni di loro sicuramente non desiderano tornare. Da un punto di vista obiettivo si potrebbe pensare che se tornassero non correrebbero nessun pericolo, ma spesso le vittime esprimono ancora questo tipo di timore. Possiamo dire che oggi per molti la paura che provano è senza fondamento, ma in loro il timore di affrontare di nuovo quell’esperienza è davvero radicato. Sono terrorizzati dalla possibilità di viverla nuovamente.

Se i nostri lettori desiderassero pregare per gli obiettivi dell’Associazione da lei presieduta, quali motivazioni suggerirebbe loro?
Tre motivazioni: la prima, che nessun cittadino giapponese venga mai più rapito. La seconda nasce da una considerazione: ci sono molte vittime che ancora soffrono a motivo della loro esperienza di stress post-traumatico. Il nostro obiettivo quindi, e la seconda motivazione della preghiera, è far sì che questi postumi possano essere superati, e che venga sanato anche il rapporto con i loro genitori (NdT: l'iniziativa del rapimento parte dai genitori delle vittime).
Terza motivazione: i deprogrammatori sono numerosi; tra questi ci sono anche dei pastori cristiani. Tutte queste persone hanno dato vita ad un notevole giro d’affari criminale. Eppure questo crimine, che è anche una grave violazione dei diritti umani fondamentali, è ancora nascosto alla società giapponese nel suo complesso. Ciò avviene a motivo dell'ostilità dei mezzi di informazione nei confronti della nostra chiesa, ed anche perché questo crimine è commesso da persone che hanno posizioni importanti nella società. È necessario pregare perché il reato di deprogrammazione divenga di dominio pubblico e che i criminali che lo praticano affrontino le conseguenze morali, penali e sociali delle loro azioni.

Dodici anni e mezzo di segregazione

Il 5 novembre del 2009 un giapponese di circa quaranta anni uscì da una casa in Tokyo e gli parve di essere finito in un mondo che non era quello che conosceva: le auto erano completamente diverse da come le ricordava, la gente vestiva abiti mai visti prima… dopo qualche minuto di disorientamento cominciò a camminare faticosamente verso un indirizzo che sapeva di dover raggiungere. Nel suo cammino osservava la gente, e vedeva che anche alcuni dei loro comportamenti gli erano incomprensibili. La cosa che più lo colpì fu il vedere che molti prendevano dalla tasca un oggetto piccolo e piatto, premevano dei tasti sulla sua faccia superiore e poi lo riponevano dove l’avevano preso: non riusciva a capire che oggetto fosse. Tante cose in effetti erano cambiate negli oltre dodici anni in cui era rimasto lontano dal mondo.
Quello era infatti il primo giorno di libertà di Toru Goto, il primo giorno dopo dodici anni e cinque mesi di vera e propria prigionia. All’età di trentuno anni era stato rapito da suo padre e dai suoi fratelli, che non accettavano la sua fede unificazionista. Per tutto quel tempo era stato costretto a subire lunghe ore di indottrinamento da parte di varie persone, che ridicolizzavano il Movimento dell'Unificazione, il suo fondatore, le sue tradizioni.
Era divenuto una delle migliaia di persone che negli ultimi decenni sono state rapite in Giappone e sottoposte ad indottrinamento forzato, per costringerle ad abiurare alla propria fede. Queste persone sono unificazionisti o membri di altri movimenti religiosi non socialmente accettati. Per quanto riguarda il Movimento dell’Unificazione, sette persone su dieci di quelle che subiscono la deprogrammazione abbandonano la loro fede. Questo a seguito della terribile pressione fisica e psicologica alla quale sono sottoposte.
Goto ad esempio, appena rapito era stato portato in una casa di proprietà della sua famiglia in Tokyo dove veniva costretto ad ascoltare, giorno dopo giorno senza interruzione, per quattro o cinque ore di seguito, la lettura di documenti contraffatti che avevano lo scopo di dimostrare la falsità della fede unificazionista e delle motivazioni spirituali del suo fondatore. Questo trattamento gli veniva praticato da gruppi di persone, che a volte raggiungeva addirittura il numero di dieci: i suoi fratelli, alcuni deprogrammatori professionisti e numerosi ex membri della sua fede. Resistere a questa pressione era estremamente difficile; nel periodo più duro la sera, prima di addormentarsi, arrivò a pregare Dio di farlo morire perché sentiva di essere al limite della sopportazione.
Ad un certo punto decise di iniziare, per protesta contro il trattamento che subiva, un digiuno di trenta giorni. Questo suo gesto non intenerì il cuore dei suoi carcerieri, né portò ad una diminuzione delle pressioni. Alla fine di quel periodo informò i suoi fratelli che avrebbe ricominciato a mangiare, ma gli fu concesso solo di bere dell'acqua in cui il riso era stato messo in ammollo e degli integratori liquidi. Questo per settanta giorni; in quel periodo, a volte riusciva ad entrare in cucina non visto e cercava qualcosa da mangiare ma trovava solo riso crudo e qualche condimento. Questa fu la sua dieta per molto tempo. Poi gli fu concesso un po' di riso cotto e qualche vegetale. In ogni caso, alla sua fuga pesava appena 39 chili: ben poco, a fronte di un'altezza di 1 metro e 82 centimetri.
Trovava la forza per resistere nella preghiera e, paradossalmente, negli scritti cristiani che gli lasciavano nella stanza per dimostrare la falsità della sua fede. In effetti i suoi fratelli, alcuni dei quali sono cristiani, pregavano e leggevano la Bibbia di fronte a lui perché si convertisse. Tra l'altro uno dei deprogrammatori era un pastore protestante. Per mantenere la fede Goto si concentrava spesso su una frase del Rev. Moon sulla persecuzione: “Chi segue la via del Cielo deve aspettarsi la persecuzione. Nel momento in cui subite grandi persecuzioni, dovete sapere che vi aspetta un periodo di grande sviluppo. La strategia del Cielo è vincere attraverso la persecuzione”.
Nella preghiera prometteva la propria dedizione incondizionata a Dio e ne sentiva la vicinanza.
All’inizio della sua prigionia veniva trattato abbastanza bene; Gesù afferma: "Amate i vostri nemici", e questo facevano i suoi fratelli cristiani. Dal momento però che non cedeva le buone maniere vennero meno, ed i fratelli cominciarono ad accusarlo: “Stai rovinando le nostre vite!”. In effetti non potevano lasciarlo solo in casa; era necessaria la presenza costante di qualcuno; situazione che rendeva prigionieri anche i suoi carcerieri.
Cominciarono anche a picchiarlo, ad insultarlo; l’amore per il nemico si era trasformato in odio, fino a giungere alle situazioni che ho descritto all'inizio. Possiamo immaginare in effetti il livello di disperazione al quale i suoi famigliari erano giunti: il piano prevedeva alcune settimane di “rieducazione” dall’esito praticamente certo, ma i mesi, gli anni, passavano senza che Goto cedesse. L’espressione di serenità che quest’ultimo si imponeva contribuiva ad esasperare i suoi carcerieri. Ricordando le parole sulla persecuzione, Goto sapeva che, se avesse accettato le sue sofferenze di buon grado, alla fine sarebbe stato lui il vincitore. La pazienza dei suoi carcerieri diminuiva con il tempo. Un giorno uno dei fratelli che lo sorvegliavano a turno, non potendone più di quella situazione di limitazione della propria libertà, e di fronte alla serenità di Goto, perse completamente il lume della ragione, lo afferrò e lo gettò letteralmente fuori casa.
Una volta libero, con i pochi abiti che indossava, scese in strada e poco dopo vide un poliziotto, al quale chiese di indicargli la strada per la sede della Chiesa di Unificazione (Goto si era diretto verso la sede che conosceva ma che nel frattempo era stata trasferita). Il poliziotto però non gli fu di nessuna utilità, e non si pose nessuna domanda vedendolo in quello stato. Proseguì, e chiese indicazioni ad una ragazza. Per un caso fortunato questa era un membro della Chiesa di Unificazione, e fu in grado di aiutarlo. Si concludeva così una vicenda terribile, che ha però il merito di aver portato di nuovo in evidenza in tutto il mondo il problema della "deprogrammazione".
Sono in corso ora azioni di pressione sul Giappone perché ponga fine a questi numerosissimi episodi di rapimento. Non appena libero Goto, con il supporto della sua Chiesa, ha presentato querela nei confronti del pastore cristiano che lo ha sottoposto alla deprogrammazione, Toridechi Matsunaga, e contro il deprogrammatore professionista Shun Miyamura.
Nel dicembre del 2009 la magistratura giapponese ha respinto la richiesta di incriminazione di queste persone per “insufficienza di prove”: questa è la motivazione con la quale viene in genere respinta la richiesta di intervento da parte delle vittime; un'altra motivazione è che questi rapimenti sono un "affare di famiglia" in cui la giustizia non può intervenire; e ciò nonostante i rapiti siano tutti maggiorenni.
Questa decisione è quindi solo la prova dell'assenza di volontà da parte del governo giapponese di affrontare un grave problema che riguarda tutte le minoranze religiose ed i diritti umani in generale. Siamo certi comunque che la mobilitazione mondiale su questo caso farà sì che il governo di Tokyo prenda seriamente in esame questa tragedia.

Azioni di pressione sul Giappone contro la deprogrammazione

Dal momento che le autorità giapponesi sembrano indifferenti al problema, la International Coalition for Religious Freedom ed altre organizzazioni internazionali si sono attivate per fare pressioni per la sua risoluzione. Il Foref (European Forum for Religious Freedom) in particolare ha emesso questo documento:

L’articolo 223 del Codice penale giapponese recita:
“Una persona che, con la minaccia di ucciderla, di sequestrarla, di distruggerne la reputazione o di derubarla, o con la violenza fisica, impone ad un’altra persona di compiere atti che tale persona non ha l’obbligo di compiere o le impedisce di esercitare i propri diritti, viene punita con la detenzione fino a tre anni”.

È incomprensibile il fatto che questi diritti, nonché gli altri garantiti dalla Costituzione giapponese e puniti dal Codice penale di quel Paese, siano stati continuamente violati nel corso di oltre 40 anni senza alcuna conseguenza legale per coloro che hanno commesso tali violazioni. Centinaia di giovani vite sono state rovinate, centinaia di famiglie sono state distrutte. Questi episodi macchiano l’integrità del Giappone e la sua reputazione di Paese difensore dei diritti umani; tale macchia resterà fino al momento in cui quei criminali verranno sottoposti a processo e le vittime vedranno riconosciuti gli abusi che hanno subito.

Dopo aver esaurito la ricerca di vari canali legali e di altro tipo per ottenere dal Governo il rispetto del diritto fondamentale alla libertà ed alla religione, le vittime di questo crimine hanno deciso di fare appello alla comunità internazionale. Chiediamo quindi al Governo giapponese di indagare in merito a questi episodi e di sottoporli a procedimento penale, perché costituiscono un pericoloso precedente che minaccia l'essenza più profonda della dignità umana.

Per conto delle vittime chiediamo quindi quanto segue:

1. Che quando un membro della Chiesa di Unificazione o di un’altra minoranza religiosa viene rapito in Giappone e la sua libertà di movimento viene limitata, il governo giapponese intervenga immediatamente e liberi la vittima.

2. Che la polizia giapponese si attivi rapidamente per ricercare chiunque sia stato rapito o imprigionato e per portare la vittima in salvo, in un luogo in cui possa liberamente decidere con chi associarsi.

3. Che al fine di eliminare tali eventi da questo Paese una volta per tutte, la polizia giapponese indaghi su coloro che in passato hanno rapito ed imprigionato delle persone e che, quando necessario, vengano avviate azioni legali nei loro confronti. Il caso di Toru Goto in particolare deve essere immediatamente riaperto e coloro che hanno commesso dei crimini contro di lui devono essere sottoposti a giusto processo.

Deprogrammazione in Giappone Preparato dalla Coalizione Internazionale per la Libertà Religiosa www.religiousfreedom.com Gennaio, 2010

Mentre il termine "deprogrammazione" entra in uso negli Stati Uniti negli anni settanta, il fenomeno dei genitori e dei parenti di usare la forza per influenzare un nuovo seguace a rinunciare ad una nuova fede, risale a tempi antichissimi. La storia della religione occidentale contiene molti esempi di persone costrette a rinunciare a una fede ritrovata. I genitori dei primi martiri cristiani, come Santa Tecla e San Pepetua sono stati tra i primi a tentare di rompere la fede dei loro figli adulti a causa della inaccettabilità sociale della loro fede. In epoca medievale, i genitori di San Francesco d'Assisi andarono dalle autorità civili per costringerlo a ritrattare la sua decisione di donare i suoi averi e di dedicarsi alla "Madonna Povertà". San Tommaso d’ Aquino è stato tenuto prigioniero in un castello della famiglia per quasi due anni, poiché i suoi parenti cercavano di dissuaderlo dal suo impegno per l'ordine ancora nuovo dei Domenicani. L'Inquisizione spagnola ricorse alle torture e minacce di morte al fine di influenzare i nuovi seguaci di altre fedi a ritornare alla Chiesa cattolica. La Riforma protestante testimoniò di numerose famiglie aspramente divise in qualità di membri che avevano optato per opposte versioni del cristianesimo.
La Scrittura e la legge islamica proibisce costrizione in materia di religione. Tuttavia, in pratica, conversioni forzate sono state conosciute nel corso della storia islamica dove le famiglie i cui figli o figlie adottano un'altra religione o setta, a volte nei loro confronti vengono prese misure estreme. Nel buddismo conversioni forzate sono altresì vietate. Tuttavia, vi sono stati casi nella storia in cui si sono verificati. Nel periodo Edo del Giappone, quando i primi missionari cristiani erano arrivati, Tokugawa Shogunate costrinse molti nuovi seguaci cristiani giapponesi a rinunciare alla loro nuova fede.
Solo in epoca moderna il principio della libertà religiosa a poco a poco ha beneficiato di un ampio consenso. In Europa, la fine delle guerre di religione tra cattolici e protestanti ha dato luogo in un primo momento ad una semplice tolleranza nei confronti delle competizioni tra le grandi fedi, ma le fedi minori e le sette più recenti, spesso hanno continuato a dover affrontare la persecuzione. Anche negli Stati Uniti, dove i fedeli sono fuggiti nella speranza di trovare una maggiore libertà, le minoranze come i cattolici, ebrei, quaccheri, e anche Battisti hanno vinto il diritto di praticare la loro fede solo gradualmente.
Negli Stati Uniti, le decisioni della Corte Suprema alla fine hanno confermato il diritto costituzionale degli adulti di scegliere una nuova religione, anche contro le obiezioni dei genitori, e il diritto di scegliere la propria religione ha anche acquisito una maggiore accettazione nelle altre democrazie occidentali. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, questo diritto è stato garantito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, in cui si afferma che: Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo ... (articolo 18).
Nonostante la libertà di religione saldamente stabilita nella maggior parte dei paesi democratici, i genitori che desiderano imporre ai loro figli adulti un ritorno alle fede tradizionale e stili di vita talvolta ricorrono a mezzi illegali. Il successo dei nuovi movimenti religiosi alla fine degli anni ‘60 e dei primi anni '70 testimonia l'emergere del fenomeno della "deprogrammazione", con una teoria di "controllo mentale" o "lavaggio del cervello" che ha cercato, senza successo, in ultima analisi, di aggirare i problemi di libertà religiosa. La teoria sosteneva che i seguaci di nuove religioni non facevano parte di questi gruppi di loro spontanea volontà, ma erano stati manipolati da "persuasione coercitiva". Le famiglie erano quindi giustificate ad assumere deprogrammatori professionisti che rapissero i credenti, li imprigionaserro contro la loro volontà, e "li salvassero" dai “culti” a cui avevano aderito. Negli Stati Uniti e in Europa, la deprogrammazione è stato portata a termine da quando i tribunali si sono pronunciati contro la teoria del "lavaggio del cervello" applicata ai prigionieri religiosi, e le principali chiese hanno fermamente respinto e si sono opposte alla pratica della "deprogrammazione", come pratica non etica. Il Consiglio Nazionale delle Chiese ha dichiarato che "il sequestro a scopo di estorsione è atroce, ma il rapimento per costringere a non convertirsi è altrettanto criminale."1 Inoltre, i giudici hanno riconosciuto il problema in modo chiaro: un adulto ha il diritto di scegliere la propria religione , e i membri della famiglia non possono legalmente trattenere un adulto contro la sua volontà, al fine di cambiare le sue credenze religiose. Come risultato, la polizia ha iniziato ad arrestare i deprogrammatori, entrambi i casi civili e penali hanno portato a gravi sanzioni penali contro gli autori di questi crimini. In Giappone invece, per oltre 40 anni, i membri della Chiesa dell'Unificazione (UC) e altri gruppi hanno subito un grave abuso fisico e psicologico per mano di deprogrammatori. Come il maggior successo dei nuovi movimenti religiosi importati in Giappone, l'UC è stato il primo obiettivo di questi distruttori di fede. Letteralmente migliaia di persone sono state rapite, imprigionate con la forza per settimane, mesi e talvolta anni, con l'intento di rompere la loro fede. Predando sulla vulnerabilità dei parenti preoccupati, i deprogrammatori sostengono attivamente questi sequestri di persona, mentre richiedono ingenti somme di denaro per il riscatto, a volte centinaia di migliaia di dollari, e quindi vittimizzano le famiglie stesse. Il trauma del rapimento e della detenzione forzata ha effetti devastanti su tutti i membri della famiglia. Essa si traduce in una rottura spesso definitiva nel rapporto di fiducia tra genitori e sequestrati. Ha spezzato le famiglie. Mogli sono state separate dai mariti, e persino dai loro stessi figli. Una vittima è stata violentata a più riprese dai suoi "deprogrammatori." Altri hanno subito lesioni gravi, come le ossa rotte e anche danni al cervello durante i tentativi di fuga. Pestaggi, continui abusi verbali, e restrizioni violente sono all'ordine del giorno. Alcuni casi hanno anche provocato il suicidio come vittime della disperazione per non riuscire a riconquistare la loro libertà. A differenza degli Stati Uniti, i ministri cristiani sono stati spesso gli autori principali di questi crimini, consigliando alle famiglie di non rilasciare le vittime di rapimento fino a quando non rinunciano alla loro fede e decidono di adottare una specifica convinzione religiosa dei ministri cristiani. Si stimano circa 4.300 vittime di sequestri in Giappone, i cui due terzi cedono alle tecniche di rottura della da parte dei deprogrammatori. Eppure, anche se tra questi adesso ci sono degli ex membri, uno studio indipendente ha rilevato che molti continuano a soffrire di problemi psicologici a lungo termine, mostrando i sintomi classici del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD)2. I tentativi di portare gli autori di questi crimini contro i diritti umani davanti alla giustizia sono stati in gran parte inefficaci, a causa del rifiuto della polizia giapponese a perseguire quei responsabili e di una maggiore autorità a perseguire i loro legali. In realtà ci sono prove significative della implicita, e in alcuni casi prove esplicite, del sostegno nei confronti dei deprogrammatori da parte delle autorità. I casi sono regolarmente liquidati come semplice "questione famigliare." In alcuni casi, le vittime che sono fuggite sono tornate dai loro sequestratori attraverso la polizia stessa, dalla quale avevano cercato aiuto. Non un caso di deprogrammazione è stato processato in un tribunale giapponese penale, nonostante le numerose lamentele e le garanzie costituzionali della libertà di religione e le leggi contro la falsa detenzione.
Questa negligenza premeditata non è tanto meglio illustrata con la decisione della procura di Tokyo del 9 dicembre 2009 a ritirare le accuse nei confronti dei responsabili per il rapimento e la tortura del Sig. Toru Goto. Quando aveva trent’anni, il signor Goto è stato rapito, è stato tenuto prigioniero per più di 12 anni e praticamente ha rischiato di morire di fame.3 E' chiaro che le autorità legali giapponesi hanno tradito le vittime di questi errori della giustizia e violazioni della dignità umana. La Costituzione del Giappone afferma che "la libertà di religione è garantita a tutti." Inoltre, ai sensi dell'articolo 220 del codice penale giapponese, la falsa detenzione è un reato e, "Chiunque fosse arrestato o tenesse prigioniere altre persone illegalmente è soggetto ad una pena detentiva per un periodo di più di tre mesi e non più di sette anni."
Alla luce del rifiuto della autorità giuridica del Giappone di affrontare questi abusi, è fondamentale che questo sia portato all'attenzione della comunità internazionale, in modo da costringere il governo del Giappone a rispettare le leggi internazionali sui diritti umani che sostiene di difendere. Proprio come nei casi precedenti in Europa e in America, i deprogrammatori in Giappone fermeranno le loro attività illegali solo quando le sanzioni che devono affrontare non renderanno più vantaggioso per loro proseguire. Ciò si verifica quando i tribunali e le autorità giudiziarie li perseguono aggressivamente e mettono in chiaro che il rapimento, la deprogrammazione e le conversioni forzate, non hanno posto in una società democratica come il Giappone. È inoltre fondamentale che i leader responsabili civili e religiosi in Giappone pubblicamente denuncino l’uso di questa tecnica e si adoperino ad educare il popolo giapponese.

1 Resolution on deprogramming: Religious Liberty for Young People Too. ( La risoluzione sulla deprogrammazione : libertà di religione anche per i giovani). Adottato dal consiglio direttivo del Consiglio Nazionale delle Chiese di Cristo il 26 Febbraio 1974. http://www.religiousfreedom.com/PDF/Japan/Goto/13.%20NCC%20Statement.pdf
2 Our Displeasing Neighbors: Tragedies of Women “Saved” from the Unification Church (I nostri vicini spiacevoli: le tragedie delle donne "salvate" dalla Chiesa dell'Unificazione) di Kazuhiro Yonemoto (407 pages), Tokyo, Joho Center Publishing, 2008
3 La Testimonianza di Toru Goto all'Assemblea di Fondazione dell'Associazione per eliminare il Rapimento Religioso e la Conversione Forzata), 15 Febbraio 2009 http://www.religiousfreedom.com/index.php?option=com_content&view=article&id=55&Itemid=30

LE RADICI DELL'INDIVIDUALISMO E LA DEMOCRAZIA MODERNA

di Rosetta Conti

Anche se il mondo è incamminato verso una sempre maggiore unita - e l'Europa ne è un chiaro esempio, resta pur sempre il fatto che la nostra è un'epoca caratterizzata anche da un forte individualismo. Ricercarne le origini storiche può servirci, perciò a capire meglio la nostra attitudine odierna e può aiutarci a comprendere come dobbiamo agire per evitare che esso diventi causa della nostra stessa infelicità.


Una delle caratteristiche della nostra epoca e della nostra cultura è l'individualismo. Risultante della sintesi fra eredità spirituale e cultura greca ed ebraica, esso è diventato uno dei connotati fondamentali del nostro tempo, alimentato anche dal nostro sistema economico che pone il profitto personale come motivazione per ogni attività.
Esso trova inoltre sostegno nel nostro sistema politico che incoraggia l'autodeterminazione individuale e la libertà personale.
Tuttavia, come molti hanno notato, il nostro individualismo è quasi sempre fuori misura; è diventato eccessivo. Il "farsi i propri affari" ha preso il posto di un giusto interesse e relazione verso un contesto più grande, sia esso la famiglia i vicini, la nazione o il mondo.
Come conseguenza la famiglia si sfascia, la città è sommersa dai problemi, la nazione e il mondo sono perennemente in crisi. E tragicamente tutto questo si ritorce verso l'individuo stesso.
Da dove nasce questo eccessivo individualismo? E in che modo si può restaurare un giusto equilibrio fra l'individuo e il suo ambiente sociale? Pur nei limiti della nostra conoscenza, possibili risposte a queste domande possono essere trovate nelle sorgenti spirituali della nostra cultura, particolarmente nel modo in cui la prima chiesa cristiana integrò le culture, ebrea e greca, di 2000 anni fa. Consideriamo l'individuo e la società in queste culture originali ed esaminiamo quindi la susseguente sintesi cristiana.

L'approccio ebraico

Nella Israele pre-cristiana, l'individuo esisteva non tanto come tale, quanto come membro della comunità. La ragione è che la vita del religioso ebreo era fondata sulla sua comprensione del lavoro di Dio nella storia e quel lavoro si basava non tanto su di lui individualmente quanto sugli israeliti, come popolo, come nazione. Troviamo questo orientamento riflesso in Esodo 19:6 per esempio, quando lo scopo creativo di Dio è descritto come " un regno di sacerdoti e una nazione santa". Allo stesso modo Deuteronomio 7:6 e 14:2 descrivono gli israeliti come "un popolo consacrato al Signore" .
Queste frasi riflettono ciò che era chiaro nella coscienza ebraica: la "nazione" e il "popolo" nel loro insieme erano il punto focale dell'attività di Dio. Di conseguenza la relazione dell'ebreo con Dio esisteva nell'ambito di questa sua appartenenza a questo più ampio contesto. Come Bernhard Anderson scrive nel suo studio del Vecchio Testamento:
"Il contrasto fra l'individuo e la comunità è completamente estraneo alla fede d'Israele, secondo la quale l'individuo è collegato a Dio come membro di una comunità... E solo come membro della comunità che l'individuo partecipa alle promesse e agli obblighi della fede... L'individuo loda Dio con la comunità adorante".
Tuttavia, nonostante questa identificazione dell'individuo con la comunità, nel pensiero ebraico c'è un chiaro riconoscimento del singolo. Buona parte delle sacre scritture ebraiche sono dedicate a guidare l'individuo verso la felicità e la benedizione divina.
Libri come i Proverbi, l'Ecclesiaste, Giobbe e alcuni Salmi si propongono di dare consigli per guidare saggiamente la vita dell'uomo. Fondamentalmente il loro insegnamento è che Dio benedice coloro che sono giusti.
Nel pensiero ebraico, quindi, l'insieme è primario e l'individuo subordinato ad esso, anche se quest'ultimo ha una relazione con Dio attraverso la sua appartenenza alla comunità e gli viene riconosciuto un proprio sentiero da percorrere. Così fra l'individuo e l'insieme non esiste conflitto inerente e il beneficio di uno concorre al beneficio dell'altro. La rettitudine del singolo determina la rettitudine della nazione e come membro della nazione l'individuo gode delle promesse dell'alleanza.
La situazione in Grecia era più complessa.

L'approccio greco

Da una parte le concezioni greche erano molto simili a quelle degli ebrei, dall'altra i greci pensavano in modo molto diverso. In linea generale, comunque, mentre in Israele l'enfasi era sull'aspetto comunitario, l'enfasi in Grecia fu posta sull'individualismo.
Il primo impulso a ciò, naturalmente, fu la filosofia greca. Dalla dottrina socratica "conosci te stesso" all'insegnamento degli stoici che ciascuna persona contiene una parte del "logos" universale, l'individuo era elevato ad una nuova posizione di dignità e valore.
Oltre a questo c'era una tendenza ad enfatizzare la sua indipendenza e considerarlo come una "completa entità in se stesso".
L'ideale di libertà dai legami con il mondo divenne lo scopo di tutte le scuole di "autarkeai", autosufficienza. Gli epicurei chiamavano questa condizione dell'individuo "tranquillità", gli stoici "integrità", gli scettici "indifferenza". I seguaci di Platone e i mistici la definivano in vari modi ma, principalmente "estasi". Comune a tutte queste correnti di pensiero era l'enfasi posta sul valore dell'individuo in se stesso.
Nonostante questo, i greci erano anche coscienti del valore dell'insieme, dello Stato, tanto che gli stessi Platone e Aristotele dedicarono ad esso la maggior parte dei loro scritti. E, in effetti, la vita dei greci era essenzialmente comunitaria, vissuta nell'ambito delle Città-Stato e inconcepibile se staccata da esse. Tanto è vero che per un autentico greco un uomo non avrebbe mai potuto essere totalmente buono qualora avesse vissuto al di fuori dello Stato, poiché era solo nella società e attraverso di essa che l'individuo poteva condurre una vita di rettitudine.
Anche se questa concezione potrebbe essere accostata a quella degli ebrei, fondamentalmente è molto diversa perché secondo la concezione ebraica la nazione era stata creata da un Dio trascendente ed esisteva solo per servirlo. La nazione d'Israele aveva uno scopo divino da raggiungere e questo si sarebbe realizzato attraverso lo svolgersi della storia. Per questo l'esistenza stessa d'Israele affondava le sue radici in una trascendenza ontologica e storica.

Il Cristianesimo

Nell'ambito delle prime chiese cristiane queste due culture si incontrarono ed entrarono in conflitto fra loro. Per dare una soluzione a questo problema, S. Paolo formulò la dottrina radicale del "Corpo di Cristo", come sintesi creativa più elevata che riconciliava e realizzava entrambi gli ideali ebraici ed ellenici. Ed è essenzialmente questa dottrina che tuttora rimane come risposta del Cristianesimo ai problemi dell'individuo e della comunità.
Paolo era un ebreo e per lui la realtà che predominava era la realtà dell'insieme. Tuttavia nella sua visione l'insieme era più che un semplice agglomerato di persone che Dio aveva riunito per uno scopo storico e trascendente: l'insieme, la Chiesa, era piuttosto il reale corpo di Cristo che continuava ad esistere in modo mistico.
Traendo il suo concetto dall'immagine stoica del corpo dell'umanità e dalle parole pronunciate da Gesù nell'Ultima Cena "Questo è il mio corpo", Paolo afferma che, con il Cristo nella posizione della testa (Col.1:18), tutti sono battezzati in un unico corpo (1 Cor. 12:13) e per questo i cristiani insieme costituiscono il corpo di Cristo e ne sono individualmente membri.
Questa non è assolutamente un'espressione simbolica di Paolo perché, per l'apostolo, la Chiesa è effettivamente il corpo di Cristo il cui spirito vitale penetra nell'individuo proprio perché egli è membro della Chiesa.
Allo stesso tempo, come parte del corpo di Cristo, l'individuo esperimenta la personale presenza e cura di un Dio d'amore.
In Atti 17:27-29, Paolo paragona la sua fede nella vicinanza di Dio a quella degli stoici: "Benché Egli non sia lontano da ciascuno di noi. In Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: poiché di Lui stirpe noi siamo. . ".
E nella lettera ai Filippesi 2:12-13 afferma l'intimità della presenza di Dio: "Quindi miei cari...attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. E Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo i Suoi benevoli disegni".
Qui, l'immanente "Logos" degli stoici viene concepito come la presenza di un amorevole Dio insito nell'uomo.
Paolo, perciò, non solo abbraccia implicitamente il concetto greco, ma basandosi sulla rivelazione cristiana, lo eleva ad un livello più alto ed infinitamente più ricco. Chiaramente per Paolo Dio è presente personalmente in ogni individuo, tuttavia, il veicolo attraverso il quale la presenza di Dio arriva all'uomo è il corpo di Cristo, la Chiesa. Nella lettera ai Colossesi 2:19 egli si riferisce a Cristo come al: "...capo dal quale tutto il corpo riceve... realizzando così la crescita secondo il volere di Dio. . . ".
Quindi è solo attraverso questo insieme più ampio che l'individuo ottiene la completezza della sua personale relazione.
Sia gli ebrei sia i greci avevano quindi parzialmente ragione e le loro concezioni furono sintetizzate e completate nella rivelazione cristiana dell'amore di Dio attraverso il Cristo.

Conclusione

Il primo compito delle chiese cristiane delle origini fu proprio quello di formulare una dottrina che riconciliasse le concezioni dei greci e degli ebrei. Il secondo compito fu quello di metterla in pratica. A distanza di 2000 anni si può constatare l'incredibile successo che ha avuto la prima fase di questo lavoro, ma ci sono parecchi dubbi sul successo della seconda.
Da dove nasce l'eccessivo individualismo? E in che modo si può restaurare un giusto equilibrio fra l'individuo e il suo ambiente sociale? Pur nei limiti della nostra conoscenza, possibili risposte a queste domande possono essere trovate nelle sorgenti spirituali della nostra cultura, particolarmente nel modo in cui la prima chiesa cristiana integrò la cultura ebrea e greca di 2000 anni fa.
Pur se tuttora la chiesa cristiana sta spingendo verso un approccio comunitario a Dio attraverso l'unità in Cristo, e pone enfasi sul valore di una fede vissuta in mezzo agli altri, predomina ancora la tendenza a stabilire un rapporto fortemente individualistico con Dio. Quindi è più che mai necessario trovare una soluzione a quest'eccessivo individualismo che si riflette in ogni manifestazione umana. E indispensabile trovare un equilibrio tra l'esigenza di realizzare una maturità e soddisfazione personali e quella di partecipare e contribuire alla vita sociale nell'ambito della comunità familiare, nazionale, mondiale.
Ancora una volta l'incentivo per quest'equilibrio non va ricercato in strutture esteriori, politiche o economiche che siano, bensì nella consapevolezza cui ogni individuo dovrebbe arrivare, che prodigarsi per il bene della comunità non significa per niente sacrificare il raggiungimento della propria felicità personale.
Realizzare lo scopo dell'individuo comporta l'affermazione e la valorizzazione della propria personalità, mentre la realizzazione dello scopo dell'insieme comporta il servizio e l'aiuto verso un gruppo più grande come la propria famiglia, la società o la nazione. I due scopi tuttavia non sono indipendenti, ma strettamente connessi fra loro e per nostra stessa natura noi, come individui, troviamo la felicità più grande quando contribuiamo al benessere della società con l'apporto delle nostre qualità e capacità individuali.
Per quanto una persona possa illudersi di arrivare alla realizzazione dei propri desideri interiori ed esteriori appartandosi dal contesto sociale, ben presto si renderà conto che, in effetti, non può soddisfare tutte le sue esigenze da sola, ma ha bisogno della complementarietà degli altri, tanto quanto gli altri hanno bisogno di lei. Il prendere coscienza di questa basilare verità è il primo passo verso la soluzione del problema dell'individualismo. Il secondo è il cambiamento d'atteggiamento dell'individuo stesso che comincia ad agire non guardando solo al proprio interesse personale, ma ponendo se stesso al servizio di un più gran benessere pubblico.