4 febbraio 2009

La bontà che dagli occhi tuoi traspare

di Giuseppe Muscardini

Se la società cosiddetta civile, si avvalesse delle sue icone più efficaci e persuasive, laiche o religiose che siano, avrebbe a disposizione uno strumento potente per fronteggiare la barbarie che pericolosamente avanza.

Un opuscolo conservato nel Fondo Nuptialia della Biblioteca Isontina di Gorizia, spiega le ragioni etiche di queste pagine. Da quell’opuscolo muoveremo nel tentativo di dare liceità all’idea secondo cui figurazioni celebri e meno celebri sempre si incardinano con i significati più pregnanti della nostra esistenza, sia quando gli accadimenti la rendono straordinaria, sia quando la alterano e la stravolgono. Il nuptiales goriziano plaude al matrimonio fra Caterina Goldschmiedt e Michelangelo Guggenheim, che tanta parte ebbe nella cultura veneziana fra Otto e Novecento. Le nozze si celebrarono a Trieste il 25 giugno 1876, quando Michelangelo Guggenheim aveva poco più di trentanove anni. Per l’occasione gli amici con vocazioni letterarie produssero componimenti poetici, uno dei quali, pubblicato nell’opuscolo in questione, presenta un incipit che a noi contemporanei, abituati a presenziare alle cerimonie nuziali con spirito ben diverso rispetto ai nostri padri e ai nostri nonni, appare stucchevole e sdolcinato: La bontà che dagli occhi tuoi traspare… Così inizia il componimento intitolato Alla sposa, lasciando in noi la convinzione che si tratti di versi di mera circostanza, perché anche quando uno sguardo possa esprimere mitezza, abbiamo imparato a considerarlo come fatto temporaneo, poco in linea con i modi e i ritmi di una società in cui bontà e nobiltà d’animo paiono inattuali categorie dello spirito, inadeguate per una società dove invece serve grinta, competizione dura, cinismo ed aggressività, ben espresse sulle nostre strade da automobilisti alla guida di mezzi come fossero autoblindo. O da tutti coloro che la mattina escono di casa, bellicosi ma beoti, per battagliare con il mondo chiamando in causa per emulazione le idiozie mutuate da certo Cinema o da certa Televisione, che fa pronunciare loro ieratiche sentenze del tipo: «Ogni giorno là fuori è una guerra!»

In una scala di valori fissata sui modelli della nostra contemporaneità, è difficile stabilire quale posto detenga la bontà. C’è il rischio di sentirsi dire che oggi chi è buono è anche un coglione, quasi la nostra società avesse interesse ad omologare tratti della personalità, della cultura e delle convinzioni etico-religiose di ognuno, annoverando qualità individuali fra le miserie e non fra le virtù. Tentativo inopportuno, attuato perché si ignora che anche della bontà esistono gradazioni. Quando Gino Strada prese energicamente posizione minacciando di chiudere gli ospedali di Emergency in Afghanistan perché non sostenuto dalle associazioni governative, esprimeva il volto severo della bontà, così come farebbe un medico rimproverando un paziente per indurlo ad attenersi alle prescrizioni di una cura.

Se analizziamo con dovuta lungimiranza l’espressione poetica usata per solennizzare il matrimonio di Michelangelo Guggenheim e Caterina Goldschmiedt, ogni giudizio si fa magicamente acritico e atemporale, permettendo una spontanea incursione nella cultura figurativa di ognuno di noi. Quando esiste. Ma se esiste non possiamo esulare da Lucas Cranach il Vecchio, e nella fattispecie dallo sguardo traboccante bontà di Maria Ausiliatrix oeinipontana nel dipinto su tavola di faggio collocato sull’altare maggiore del Duomo di Innsbruck, consacrato a Saint Jakob. Qui la consonanza fra qualità morale ed iconografia è palese. La lieve inclinazione del capo con cui Maria permette al bambino di vellicarle teneramente il viso, sottende ad una complicità decisa a priori insieme allo spettatore, finalizzata a trasmettergli un senso di levità e mansuetudine proveniente dalla conscia maternità ed esteso a tutti coloro su cui si posa lo sguardo parlante. Uno sguardo inteso come ausilio – da cui deriva l’attribuzione del soggetto in Mariahilf – profuso in forza di una bontà inequivocabile che l’uso sapido del colore e le lumeggiature accentuano nel punto dove la guancia e lo zigomo sono venati di rosso, prolungandosi fin sotto la demarcazione pittorica in corrispondenza della tempia, dove si distingue il bordo del velo trasparente.

Lo sguardo di Maria Ausiliatrice nella tavola di Cranach emoziona e commuove, nonostante i modi dissacranti e canzonatori di quanti, con atteggiamenti dettati da nuova barbarie, favoriscono con colpevole stupidità la despiritualizzazione della società. Se la società cosiddetta civile, anziché schedare i bambini rom, respingere i diseredati e insultare uomini di pace e cariche istituzionali sulle piazze, si avvalesse delle sue icone più efficaci e persuasive, laiche o religiose che siano, avrebbe a disposizione uno strumento potente per fronteggiare quella stessa barbarie che pericolosamente avanza.

E qui dovremmo pensare che il nostro tema, con l’incitamento al recupero di valori innervati nella più consolidata iconografia, possa dirsi concluso. Ma così non è, perché ripescando i fatti della storia resta ancora da aggiungere un episodio di non poco conto. La tavola di Mariahilf ora nel Duomo di Innsbruck fu dipinta da Cranach il Vecchio intorno al 1530, ma rimase a lungo a Dresda, nelle collezioni del Principe Elettore di Sassonia. Il giovane Principe sassone Giovanni Giorgio I, di fede protestante, la donò nel 1611 a Leopoldo V, che la portò prima a Passau e in seguito ad Innsbruck. La tolleranza, anche in periodi di scontri aspri tra confessioni diverse, si sviluppava talvolta nel rispetto delle comuni valenze iconografiche, pur non condivise dalle singole confessioni di appartenenza, come nel caso di Maria Ausiliatrix, venerata dai cattolici ma non dai protestanti. Da qui il diffondersi del mito della grandezza morale de i cavalieri antiqui, capaci di alternare alla ferocia usata in battaglia un cavalleresco riguardo per le convinzioni dei presunti nemici. Ciò avveniva sull’esempio romano delle res gestae dell’avversario, che una volta vinto e battuto, era effigiato più grande e possente del reale per magnificarne il coraggio, la fierezza e la levatura morale. Così è per la figura di Decebalo, sovradimensionata nella formella della Colonna Traiana dove si “racconta” del suicidio del re dei Daci davanti alle truppe romane. Si potrà fare altrettanto per i cavalieri moderni, quelli dell’industria, dell’economia e della politica, privi di saggezze autentiche per meritare titoli onorifici così altisonanti? Oh, gran bontà dei cavalieri antiqui!

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Giuseppe Muscardini è nato nel 1953. Laurea in Pedagogia. Vive a Ferrara dove lavora presso i Musei Civici d‘Arte Antica.

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